<3 GRAZIE A CHIUNQUE PASSA E LASCIA UN SEGNO DI SE' <3

mercoledì 14 marzo 2012

La Voce a te Dovuta - Pedro Salinas 1933





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Tu vivi sempre nei tuoi atti

Tu vivi sempre nei tuoi atti.
Con la punta delle dita
sfiori il mondo, gli strappi
aurore, trionfi, colori,
allegrie: è la tua musica.
La vita è ciò che tu suoni.

Dai tuoi occhi solamente
emana la luce che guida
i tuoi passi. Cammini
fra ciò che vedi. Soltanto.

E se un dubbio ti fa cenno
e diecimila chilometri,
abbandoni tutto, ti lanci
su prore, su ali,
sei subito lì; con i baci,
coi denti lo laceri:
non è più dubbio.
Tu mai puoi dubitare.

Perché tu hai capovolto
i misteri. E i tuoi enigmi,
ciò che mai potrai capire,
sono le cose più chiare:
la sabbia dove ti stendi,
il battito del tuo orologio
e il tenero corpo rosato
che nel tuo specchio ritrovi
ogni giorno al risveglio,
ed è il tuo. I prodigi
che sono già decifrati.

E mai ti sei sbagliata,
solo una volta, una notte
che t’invaghisti di un’ombra
- l’unica che ti è piaciuta -.
Un’ombra pareva.
E volesti abbracciarla.
Ed ero io.

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No, non lasciate chiuse…


No, non lasciate chiuse
le porte della notte,
del fulmine, del vento,
di ciò che mai si è visto.
Restino aperte sempre
esse, le ben note.
E tutte, quelle ignote,
che si aprono
sui lunghi percorsi
da tracciare, nell’aria,
sulle rotte che stanno
cercandosi un varco
con volontà oscura
e ancora non l’hanno trovato
in punti cardinali.
Mettete alti segnali,
astri, meraviglie;
che si veda chiaramente
che è qui, che tutto
desidera accoglierla.
Perché può venire.
Oggi o domani, o fra mille
anni, o il giorno
penultimo del mondo.
E tutto
dev’essere così piano
come la lunga attesa.

Eppure so che è inutile.
Che è un gioco mio, tutto,
aspettarla così
come folata o brezza,
temendo che inciampi.
Perché quando lei verrà
sfrenata, implacabile,
a raggiungere me,
muraglie, nomi, tempi,
si frangeranno tutti,
travolti, penetrati
irresistibilmente
dall’immensa tempesta del suo amore,
ormai presenza.
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Sì, al di là della gente

Sì, al di là della gente
ti cerco.
Non nel tuo nome, se lo dicono,
non nella tua immagine, se la dipingono.
Al di là, più in là, più oltre.

Al di là di te ti cerco.
Non nel tuo specchio
e nella tua scrittura,
nella tua anima nemmeno.
Di là, più oltre.

Al di là, ancora, più oltre
di me ti cerco. Non sei
ciò che io sento di te.
Non sei
ciò che mi sta palpitando
con sangue mio nelle vene,
e non è me.
Al di là, più oltre ti cerco.

E per trovarti, cessare
di vivere in te, e in me,
e negli altri.
Vivere ormai di là da tutto,
sull’altra sponda di tutto
– per trovarti –
come fosse morire.

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Se mi chiamassi


Se mi chiamassi, sì,
se mi chiamassi!

Io lascerei tutto,
tutto io getterei:
i prezzi, i cataloghi,
l’azzurro dell’oceano sulle carte,
i giorni e le loro notti,
i telegrammi vecchi
e un amore.
Tu, che non sei il mio amore,
se mi chiamassi!

E ancora attendo la tua voce:
giù per i telescopi,
dalla stella,
attraverso specchi e gallerie
ed anni bisestili
può venire. Non so da dove.
Dal prodigio, sempre.
Perché se tu mi chiami
- se mi chiamassi, sì, se mi chiamassi! –
sarà da un miracolo,
ignoto, senza vederlo.

Mai dalla mie labbra che ti bacio,
mai
dalla voce che dice: “Non te ne andare”.



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Perché hai nome tu…


Perché hai nome tu,
giorno mercoledì?
Perché hai nome tu,
tempo, autunno?
Allegria, pena, sempre
perché avete nome: amore?

Se tu non avessi nome,
io non saprei che cos’era,
né come, né quando. Nulla.

Sa forse il mare come si chiama,
che è il mare? Sanno i venti
i loro nomi, del Sud
e del Nord, al di sopra
del puro alito che sono?

Se tu non avessi nome,
tutto sarebbe iniziale,
primordiale, inventato tutto
da me,
intatto perfino il mio bacio.
Gioia,amore: delizia lenta
di gioire, di amare, senza nome.

Nome, pugnale confitto
nel mezzo di un petto candido
che sarebbe nostro per sempre
non fosse per il nome!


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Lì, oltre il sorriso…

Lì, oltre il sorriso,
non ti si conosce più.
Vai e vieni, scivoli
per un mondo di valzer gelati, all’ingiù;
e passando, i capricci,
gli impulsi ti carpiscono
baci senza vocazione,
a te, la momentanea
prigionia dell’agevole.
“Che allegra!”, dicono tutti.
Ed è che tu allora
tenti di essere altra,
così somigliante
a te stessa, che ho paura
di perderti, così.

Ti seguo, Attendo. So
che quando non ti osservino
gallerie né astri,
quando il mondo crederà
di sapere ormai chi sei
e dirà: “Sì, ora so”,
tu scioglierai,
con le braccia in alto,
dietro ai capelli,
il nodo, guardandomi.

Senza rumore di cristallo
cadrà per terra,
maschera senza peso
ormai inutile, il riso.
E quando ti vedrai
nell’amore che io ti tendo sempre
come uno specchio ardente,
tu riconoscerai
un volo serio, grave,
una sconosciuta
alta, pallida e triste,
la mia amata. Che mi ama
al di là delle risa.
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Non ho bisogno di tempo…

Non ho bisogno di tempo
per sapere come sei:
conoscersi è luce improvvisa.
Chi ti potrà conoscere
là dove taci, o nelle
parole con cui tu taci?
Chi ti cerca nella vita
che stai vivendo, non sa
di te che allusioni,
pretesti in cui ti nascondi.
E seguirti all’indietro
in ciò che hai fatto, prima,
sommare azione e sorriso,
anni e nomi, sarà
come perderti. Io no.
Ti ho conosciuto nella tempesta.
Ti ho conosciuto, improvvisa,
in quello squarcio brutale
di tenebra e luce,
dove si rivela il fondo
che sfugge al giorno e alla notte.
Ti ho visto, mi hai visto, ed ora,
nuda ormai dall’equivoco,
della storia, del passato,
tu amazzone sulla folgore,
palpitante di recente
ed inatteso arrivo,
sei così anticamente mia,
da tanto tempo ti conosco,
che nel tuo amore chiudo gli occhi,
e procedo senza errare,
alla cieca, senza chiedere nulla
a quella luce lenta e sicura
con cui si riconoscono lettere
e forme e si fanno conti
e si crede di vedere
chi tu sia, o mia invisibile.


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Che giorno incontaminato!

Che giorno incontaminato!
La spuma, di ora in ora,
instancabilmente,
bianca, bianca, bianca.
Innocenti materie,
i corpi e le rocce
- dallo zenit totale
mezzogiorno assoluto –
stavano
vivendo della luce,per la luce, nella luce.
Ancora sconosciute
la coscienza e l’ombra.
Si tendeva una mano
a cogliere una pietra,
una nube, un fiore,
un’ala.
E si raggiungeva tutto,
perché era prima
delle distanze.
Non sospettava il tempo
di essere il tempo.
Ci veniva accanto
sottomesso ed elastico.
Per vivere lentamente,
in fretta, gli dicevamo:
“Fermati” o “Mettiti a correre”.
Per vivere, vivere
soltanto, tu gli dicevi:
“Vattene”.
E allora ci lasciava
eterei a galleggiare
nel puro vivere
senza successione,
salvati da motivi,
da origini, da albe.
Né volgere la testa
né guardare lontano
abbiamo saputo quel giorno
tu ed io. Non ne avevamo
bisogno. Baciarci, sì.
Ma con labbra così remote
dalla loro causa,
che inauguravano tutto,
bacio, amore, baciandosi,
senza dover chiedere perdono
a nessuno, a nulla.
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Che allegria,vivere…

Che allegria, vivere
e sentirsi vissuto.
Arrendersi
alla grande certezza, oscuramente,
che un altro essere fuori di me,
molto lontano,
mi sta vivendo.
Che quando gli specchi, le spie,
mercurio, anime brevi, confermano
che sono qui, io, immobile,
serrati gli occhi e le labbra,
chiuso all’amore
della luce, del fiore e dei nomi,
la verità transvisibile è che cammino
senza i miei passi, con altri,
là lontano, e lì
sto baciando fiori, luci, parlo.
Che esiste un altro essere
con cui io guardo il mondo
perché sta amandomi con i suoi occhi.
Che esiste un’altra voce con cui io dico cose
non sospettate dal mio gran silenzio;
ed è che anche con la voce mi ama.
La vita - che slancio ora! -, ignoranza
degli atti miei, che lei compie,
in cui lei vive, duplice, sua e mia.
E quando mi parlerà
di un cielo scuro, di un paesaggio bianco,
ricorderò
stelle che non ho visto, che lei guardava,
e neve che nevicava nel suo cielo.
Con la strana delizia di ricordare
di aver toccato ciò che non toccai
se non con quelle mani
che non raggiungo con le mie, distanti.
E spogliato di tutto così potrà il mio corpo
riposare, tranquillo, morto ormai.
Morire nell’alta certezza
che la mia vita non era solo
la mia vita: era la nostra.
E che un altro essere mi vive
di là dalla non morte.
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Io di più non posso darti.

Io di più non posso darti.
Non sono che quello che sono.

Ah, come vorrei essere
sabbia, sole, in estate!
Che tu ti distendessi
riposata a riposare.
Che andando via tu mi lasciassi
il tuo corpo, impronta tenera,
tiepida, indimenticabile.
E che con te se ne andasse
sopra di te, il mio bacio lento:
colore,
dalla nuca al tallone,
bruno.

Ah come vorrei essere
vetro, tessuto, legno,
che conserva il suo colore
qui, il suo profumo qui,
ed è nato tremila chilometri lontano!
Essere
la materia che ti piace,
che tocchi tutti i giorni,
che vedi ormai senza guardare
intorno a te, le cose
- collana, profumi, seta antica –
di cui se senti la mancanza
domandi: “Ah, ma dov’è?”.

Ah, e come vorrei essere
un’allegria fra tutte,
una sola,
l’allegria della tua allegria!
Un amore, un solo amore:
l’amore di cui tu ti innamorassi.

Ma
non sono quello che sono.


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La luce ha questo di male

La luce ha questo di male,
che non viene da te.
La luce viene dai soli,
dai fiumi, dall’oliva.
Io preferisco la tua oscurità.

L’allegria
non è mai la stessa mano
che me la dà. Oggi una,
un’altra domani, un’altra ieri.
Ma non è mai la tua.
Per questo da te prendo sempre
la pena, ciò che mi dai.

I baci li portano i fili
del telegrafo, i contatti
con notti dense,
le labbra dell’avvenire.
E vengono, da dove vengono.
Io non mi sento baciare.

E per questo non lo voglio,
e non voglio doverlo
non so a chi.
Dovere tutto a te
io vorrei.
Come sarebbe bello, intero, il mondo,
se tutto, baci e luci,
e gioia,
venissero solo da te!

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Il sonno è un lungo commiato a te

Il sonno è un lungo
commiato da te.
Che vita insieme a te,
in piedi, vigile del sonno!
Dormire il mondo, il sole,
le formiche, le ore,
tutto, tutto addormentato,
nel sonno che io dormo!
Tranne tu, tu l’unica,
viva, sopravvissuta,
nel sogno che io sogno.

Ma ormai ti ho salutato:
sto per lasciarti. Accanto
il mattino prepara
tutta la sua precisione
di raggi e di risa.
Fuori, fuori, ormai,
le immagini sognate,
che si muovono fluttuanti
sopra il mondo,
senza potersi posare
perché non trovano posto,
disperatamente!

Ti abbraccio per l’ultima volta:
che è come aprire gli occhi.
Ecco. Le verticali
cominciano a lavorare,
senza smarrimenti, in regola.
Svolgono i colori
le loro mansioni di azzurro,
di rosa, di verde,
puntuali tutti. Il mondo
funzionerà bene oggi:
ha già ucciso il mio sogno.
Ti sento fuggire, veloce,
dall’aurora, esattissima,
verso l’alto, cercando
la stella che non si vede,
il disordine celeste,
tua sola dimora.
E poi, quando mi sveglio,
non ti riconosco, quasi,
quando, al mio fianco, tendi
le braccia verso di me
dicendo: “Che hai sognato?”
e ti risponderei: “Non lo so,
l’ho scordato”,
se il tuo corpo non fosse
già lì, limpido, esatto,
labbra tese ad offrirmi
il grande errore del giorno.

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Che incrocio nel tuo polso…

Che incrocio nel tuo polso
del tempo contro il tempo!
Orologio, freddo, avvinto,
vigile, attende
che scorra il tuo sangue
nel battito. Ti opprimono
ordini, da fuori:
tic tac, tic tac,
la voce, lì, nella macchina.
Alla tua vita infinita,
senza termine, gettano
lacci puerili i secondi.
Ma il tuo cuore
là in fondo afferma
- sangue che va e viene
in te, con il tuo amore –
il suo essere, il suo ritmo, diverso.
No. I giorni, il tempo,
non ti saranno mai contati
in una sfera bianca,
tre, quattro, cinque, sei.
Le tue indolenze, i tuoi impulsi,
il grande ardore senza calcolo,
non si possono dire in cifre.
Sentili tu, spogliata
di orologio, nel polso:
battito contro numero.
Amore? Vivere? Ascolta
il sommesso tic tac
che ormai sono vent’anni
vibrò la prima volta
in una carne vergine
del tatto della luce,
per offrire al mondo
un conteggio diverso,
unico, nuovo: tu.

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Quando tu chiudi gli occhi…


Quando tu chiudi gli occhi
le tue palpebre sono aria.
Mi trascinano:
vado con te, dentro.

Non si vede nulla, non
si sente nulla. Superflui
gli occhi e le labbra,
in questo mondo tuo.
Per sentire te
non valgono
i sensi consueti,
che si usano con gli altri.
Bisogna attenderne di nuovi.
Si cammina al tuo fianco
sordamente, al buio,
inciampando nei forse,
nelle attese; sprofondando
verso l’alto
con gran peso di ali.

Quando tu riapri gli occhi
io torno fuori,
ormai cieco,
inciampando ancora,
senza vedere, nemmeno, qui.
Senza sapere più vivere
né in quell’altro, nel tuo,
né in questo
mondo scolorito
dove io vivevo.
Incapace, indifeso
fra l’uno e l’altro.
Andando, venendo
dall’uno all’altro
quando tu vuoi,
quando apri, quando chiudi
le palpebre, gli occhi.

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No, non ti amano, no.

No, non ti amano, no.
Tu sì, tu ami davvero.

L’amore che hai in più
se lo spartiscono esseri
e cose che guardi,
che tu tocchi, che mai
hanno avuto amore prima.
Quando dici: “Mi amano
le tigri o le ombre”
è solo che hai vagato
nelle selve o nelle notti,
portando con te
la tua grande ansia d’amare.
Non sei fatta per essere amata;
tu vincerai sempre,
amando, chi ti ama.
Amante, amata no.
E ciò ch’io potrò darti,
vinto, qui, adorandoti,
tu stessa te lo dai:
è il tuo amore implacabile,
che non ha con chi unirsi,
che ritorna a se stesso
attraverso questo corpo
mio, permeato ormai
dal ricordo infinito,
indimenticabile, eterno,
di essere valso una volta
a che tu lo attraversassi
- ancora sento il fuoco –
cieca, verso il tuo destino.
Dal ricordo che un giorno fra tutti
tu giungesti
al tuo amore attraverso il mio amore.
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Ciò che tu sei…

Ciò che tu sei
mi distrae da ciò che tu dici.

Lanci parole veloci
inghirlandate di risa,
e m’inviti ad andare
dove mi vorranno condurre.
Non ti do retta, non le seguo:
sto guardando
le labbra dove sono nate.

Guardi, improvvisa, lontano.
Fissi lo sguardo lì, su qualcosa,
non so che, e scatta subito
a carpirla la tua anima
affilata, di saetta.
Io non guardo dove guardi:
sto vedendo te che guardi.

E quando tu desideri qualcosa
non penso a ciò che vuoi,
e non lo invidio: non importa.
Oggi lo vuoi, lo desideri;
domani scorderai
per un desiderio nuovo.
No. Ti attendo più oltre
dei limiti, dei termini.
In ciò che non deve mutare
rimango fermo ad amarti, nel puro
atto del tuo desiderio.
E non desidero più altro
che vedere te che ami.

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I cieli sono uguali.

I cieli sono uguali.
Azzurri, grigi, neri,
si ripetono sopra
l’arancio o la pietra:
guardarli ci avvicina.
Annullano le stelle,
tanto sono lontane,
le distanze del mondo.
Se noi vogliamo unirci,
non guardare mai avanti:
tutto pieno di abissi,
di date e di leghe.
Abbandonati e galleggia
sopra il mare o sull’erba,
immobile, il viso al cielo.
Ti sentirai calare
lenta, verso l’alto,
nella vita dell’aria.
E ci incontreremo
oltre le differenze
invincibili, sabbie,
rocce, anni, ormai soli,
nuotatori celesti,
naufraghi dei cieli.


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Ieri ti ho baciato sulle lebbra.

Ieri ti ho baciato sulle labbra.
Ti ho baciato sulle labbra. Intense,
rosse. Un bacio così corto
durato più di un lampo,
di un miracolo, più ancora.
Il tempo
dopo averti baciato
non valeva più a nulla
ormai, a nulla
era valso prima.
Nel bacio il suo inizio e la sua fine.

Oggi sto baciando un bacio;
sono solo con le mie labbra.
Le poso
non sulla bocca, no, non più
- dove è fuggita? –
Le poso
sul bacio che ieri ti ho dato,
sulle bocche unite
del bacio che hanno baciato.
E dura questo bacio
più del silenzio, della luce.
Perché io non bacio ora
né una carne né una bocca,
che scappa, che mi sfugge.
No.
Ti sto baciando più lontano.

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Il modo tuo d’amare…

Il modo tuo d’amare
è lasciare che io ti ami.
Il sì con cui ti abbandoni
è il silenzio. I tuoi baci
sono offrirmi le labbra
perché io le baci.
Mai parole o abbracci
mi diranno che esistevi
e mai hai amato: mai.
Me lo dicono fogli bianchi,
mappe, telefoni, presagi;
tu, no.
E sto abbracciato a te
senza chiederti nulla, per timore
che non sia vero
che tu vivi e mi ami.
E sto abbracciato a te
senza guardare e senza toccarti.
Non debba mai scoprire
con domande, con carezze,
quella solitudine immensa
d’amarti solo io.

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Parliamo, da quando?

Parliamo, da quando?
Chi ha cominciato? Non so.
I giorni, le mie domande;
oscure, ampie, vaghe
le tue risposte: le notti.
E insieme
formano il mondo, il tempo
per te e per me.
Il mio interrogare sprofonda
con le luce nel nulla,
silenzioso,
perché tu risponda
con equivoche stelle;
e poi subito rinasce
con l’alba, stupefacente
di novità, di ansia
di domandare le stesse cose
che domandava ieri,
cui stellata la notte
appena rispose.
Gli anni e la vita,
che dialogo angosciato!

Eppure,
quasi tutto ancora da dire.
E quando verremo separati
e non ci sentiremo più,
io ancora ti dirò:
“Troppo presto!
Tanto di cui parlare,
e tanto
ce ne restava ancora!”
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Che passeggiata di notte…

Che passeggiata di notte
con la tua assenza al mio fianco!
Mi sta accanto il sentire
che non vieni con me.
Gli specchi, l’acqua
mi credono solo;
lo credono gli occhi.
Sirene dei cieli
ancora grondanti di stelle,
tenere ragazze languide,
che scendono da automobili,
mi chiamano. Non le sento.
Ho ancora nelle orecchie
la tua voce che diceva:
“Non te ne andare”. E quelle
ultime parole tue
parlano ancora con me
senza sosta, mi rispondono
a ciò che ha chiesto
la mia vita il primo giorno.
Ombre, fantasmi, sogni,
amori d’altro tempo,
mossi a pietà di me,
mi vogliono seguire,
mi prendono per mano.
Ma all’improvviso avvertono
che ardente, viva, tenera,
io stringo palpitante nella mia
la forma di una mano.
Quella che tu mi hai teso
dicendo: “Non te ne andare”.
Se ne vanno, mi lasciano
i fantasmi, le ombre,
attoniti vedendo
che non rimango solo.
E allora l’alta notte,
l’oscurità, il freddo,
anche loro ingannati,
mi vengono a baciare.
Non possono; un altro bacio
s’insinua, sulle mie labbra.
Non si muove di lì,
non se ne andrà. Il bacio
che tu mi hai dato,
guardandomi negli occhi
mentre mi allontanavo,
dicendo: “Non te ne andare”.

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Ti si sta vedendo l’altra.

Ti si sta vedendo l’altra.
Somiglia a te:
i passi, la stessa fronte aggrondata,
gli stessi tacchi alti
tutti macchiati di stelle.
Quando andrete per la strada
insieme, tutt’e due,
è difficile sapere
chi sei o chi non sei tu!
Così uguali ormai, che sarà
impossibile continuare e vivere
così, essendo tanto uguali.
E siccome tu sei la fragile,
quella che appena esiste, tenerissima,
sei tu a dover morire.
Tu lascerai che ti uccida,
che continui a vivere lei,
la falsa tu, menzognera,
ma a te così somigliante
che nessuno ricorderà
tranne me, ciò che eri.
E verrà un giorno
- perché verrà, sì, verrà –
in cui guardandomi negli occhi
tu vedrai
che penso a lei e che la amo:
tu vedrai che non sei tu.

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A te si giunge solo attraverso te.

A te si giunge solo
attraverso di te. Ti aspetto.

Io certo so dove sono,
la mia città, la strada, il nome
con cui tutti mi chiamano.
Ma non so dove sono stato
con te.
Lì mi hai portato tu.

Come
potevo imparare il cammino
se non guardavo altro
che te,
se il cammino erano i tuoi passi,
e il suo termine
l’istante che tu ti fermasti?
Cosa ancora poteva esserci
oltre a te offerta, che mi guardavi?

Ma ora,
quale esilio, che assenza
essere dove si è!
Aspetto, passano i treni,
il caso, gli sguardi.
Mi condurrebbero forse
dove mai sono stato.
Ma io non voglio i cieli nuovi.
Voglio stare dove sono già stato.
Con te, tornare.
Quale immensa novità
tornare ancora,
ripetere, mai uguale,
quello stupore infinito!

E finchè tu non verrai
io rimarrò alle soglie
dei voli, dei sogni,
delle scie, immobile.
Perché so che là dove sono stato
né ali, né ruote, né vele
conducono.
Hanno tutte smarrito il cammino.
Perché so che là dove sono stato
si giunge solo
con te, attraverso di te.
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Tu non le puoi vedere.

Tu non le puoi vedere;
io, sì.
Terse, rotonde, tiepide.
Lentamente
vanno al loro destino;
lentamente, per indugiare
più a lungo sulla tua carne.
Vanno verso il nulla; non sono
che questo, il loro scorrere.
E una traccia, verticale,
che si cancella subito.
Astri?

Tu
non le puoi baciare.
Le bacio io per te.
Hanno un sapore; sanno
di succhi del mondo.
Che gusto nero e denso
di terra, di sole, di mare!
Restano un istante
nel bacio, indecise
fra la tua carne fredda
e le mie labbra; infine
io le prendo. E non so
se erano davvero per me.
Perché io non so nulla.
Sono stelle, o segni,
sono condanne o aurore?
Né guardando né coi baci
ho imparato che cos’erano.
Ciò che vogliono resta
là indietro, tutto ignoto.
E così pure il loro nome.
(Se le chiamassi lacrime
nessuno capirebbe).


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Quando tu mi hai scelto…

Quando tu mi hai scelto
- fu l’amore che scelse –
sono emerso dal grande anonimato
di tutti, del nulla.
Sino allora
mai ero stato più alto
delle vette del mondo.
Non ero mai sceso più sotto
delle profondità
massime segnalate
sulle carte di mare.
E la mia allegria era
triste, come lo sono
quei piccoli orologi,
senza braccio su cui cingersi,
senza carica, fermi.
Ma quando hai detto : “tu”
- a me, sì, a me, fra tutti –
più in alto ormai di stelle
o coralli sono stato.
E la mia gioia
ha preso a girare, avvinta
al tuo essere, nel tuo pulsare.
Possesso di me tu mi davi,
dandoti a me.
Ho vissuto, vivo. Fino a quando?
So che tu tornerai
indietro. E quando te ne andrai
ritornerò a quel sordo
mondo, indistinto,
del grammo, della goccia,
nell’acqua, nel peso.
Sarò uno dei tanti
quando non ti avrò più.
E perderò il mio nome,
i miei anni, i miei tratti,
tutto perduto in me, di me.
Ritornato all’ossario immenso
di quelli che non sono morti
e non hanno più nulla
da morire nella vita.

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Non in palazzi di marmo…


Non in palazzi di marmo
non in mesi, no, né in cifre,
mai calpestando il suolo:
in lievi mondi fragili
abbiamo vissuto insieme.
Il tempo si misurava
a malapena in minuti:
un minuto era un secolo,
una vita, un amore.
Ci riparavano tetti,
meno che tetti, nubi;
meno che nubi, cieli;
meno ancora, aria, nulla.
Attraversando mari
fatti di venti lacrime,
dieci tue e dieci mie,
approdavamo a grani
dorati di collana,
isole terse, deserte,
senza fiori e senza carne;
rifugio, così minuto,
in vetro, di un amore
che da solo bastava
all’amore più grande
e non chiedeva aiuto
né alle navi né al tempo.
Gallerie enormi
scavando
nei grani di sabbia,
scoprimmo miniere
di fiamme o d’imprevisti.
E tutto
appeso a quel filo
che sosteneva, chi?
Perciò la nostra vita
non sembrava vissuta:
è scivolata, lieve,
senza lasciarsi dietro
né impronte né scie.
Se tu vuoi ricordarla,
non guardare
dove sempre si cercano
le orme e il ricordo.
Non ti guardare l’anima,
l’ombra, le labbra.
Guardati bene il palmo
della mano, vuoto.

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