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Tu
vivi sempre nei tuoi atti
Tu
vivi sempre nei tuoi atti.
Con
la punta delle dita
sfiori
il mondo, gli strappi
aurore,
trionfi, colori,
allegrie:
è la tua musica.
La
vita è ciò che tu suoni.
Dai
tuoi occhi solamente
emana
la luce che guida
i
tuoi passi. Cammini
fra
ciò che vedi. Soltanto.
E
se un dubbio ti fa cenno
e
diecimila chilometri,
abbandoni
tutto, ti lanci
su
prore, su ali,
sei
subito lì; con i baci,
coi
denti lo laceri:
non
è più dubbio.
Tu
mai puoi dubitare.
Perché
tu hai capovolto
i
misteri. E i tuoi enigmi,
ciò
che mai potrai capire,
sono
le cose più chiare:
la
sabbia dove ti stendi,
il
battito del tuo orologio
e
il tenero corpo rosato
che
nel tuo specchio ritrovi
ogni
giorno al risveglio,
ed
è il tuo. I prodigi
che
sono già decifrati.
E
mai ti sei sbagliata,
solo
una volta, una notte
che
t’invaghisti di un’ombra
-
l’unica che ti è piaciuta -.
Un’ombra
pareva.
E
volesti abbracciarla.
Ed
ero io.
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No, non lasciate chiuse…
No,
non lasciate chiuse
le
porte della notte,
del
fulmine, del vento,
di
ciò che mai si è visto.
Restino
aperte sempre
esse,
le ben note.
E
tutte, quelle ignote,
che
si aprono
sui
lunghi percorsi
da
tracciare, nell’aria,
sulle
rotte che stanno
cercandosi
un varco
con
volontà oscura
e
ancora non l’hanno trovato
in
punti cardinali.
Mettete
alti segnali,
astri,
meraviglie;
che
si veda chiaramente
che
è qui, che tutto
desidera
accoglierla.
Perché
può venire.
Oggi
o domani, o fra mille
anni,
o il giorno
penultimo
del mondo.
E
tutto
dev’essere
così piano
come
la lunga attesa.
Eppure
so che è inutile.
Che
è un gioco mio, tutto,
aspettarla
così
come
folata o brezza,
temendo
che inciampi.
Perché
quando lei verrà
sfrenata,
implacabile,
a
raggiungere me,
muraglie,
nomi, tempi,
si
frangeranno tutti,
travolti,
penetrati
irresistibilmente
dall’immensa
tempesta del suo amore,
ormai
presenza.
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Sì, al di là
della gente
Sì,
al di là della gente
ti
cerco.
Non
nel tuo nome, se lo dicono,
non
nella tua immagine, se la dipingono.
Al
di là, più in là, più oltre.
Al
di là di te ti cerco.
Non
nel tuo specchio
e
nella tua scrittura,
nella
tua anima nemmeno.
Di
là, più oltre.
Al
di là, ancora, più oltre
di
me ti cerco. Non sei
ciò
che io sento di te.
Non
sei
ciò
che mi sta palpitando
con
sangue mio nelle vene,
e
non è me.
Al
di là, più oltre ti cerco.
E
per trovarti, cessare
di
vivere in te, e in me,
e
negli altri.
Vivere
ormai di là da tutto,
sull’altra
sponda di tutto
– per
trovarti –
come
fosse morire.
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Se mi chiamassi
Se
mi chiamassi, sì,
se
mi chiamassi!
Io
lascerei tutto,
tutto
io getterei:
i
prezzi, i cataloghi,
l’azzurro
dell’oceano sulle carte,
i
giorni e le loro notti,
i
telegrammi vecchi
e
un amore.
Tu,
che non sei il mio amore,
se
mi chiamassi!
E
ancora attendo la tua voce:
giù
per i telescopi,
dalla
stella,
attraverso
specchi e gallerie
ed
anni bisestili
può
venire. Non so da dove.
Dal
prodigio, sempre.
Perché
se tu mi chiami
-
se mi chiamassi, sì, se mi chiamassi! –
sarà
da un miracolo,
ignoto,
senza vederlo.
Mai
dalla mie labbra che ti bacio,
mai
dalla
voce che dice: “Non te ne andare”.
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Perché hai nome tu…
Perché
hai nome tu,
giorno
mercoledì?
Perché
hai nome tu,
tempo,
autunno?
Allegria,
pena, sempre
perché
avete nome: amore?
Se
tu non avessi nome,
io
non saprei che cos’era,
né
come, né quando. Nulla.
Sa
forse il mare come si chiama,
che
è il mare? Sanno i venti
i
loro nomi, del Sud
e
del Nord, al di sopra
del
puro alito che sono?
Se
tu non avessi nome,
tutto
sarebbe iniziale,
primordiale,
inventato tutto
da
me,
intatto
perfino il mio bacio.
Gioia,amore:
delizia lenta
di
gioire, di amare, senza nome.
Nome,
pugnale confitto
nel
mezzo di un petto candido
che
sarebbe nostro per sempre
non
fosse per il nome!
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Lì,
oltre il sorriso…
Lì,
oltre il sorriso,
non
ti si conosce più.
Vai
e vieni, scivoli
per
un mondo di valzer gelati, all’ingiù;
e
passando, i capricci,
gli
impulsi ti carpiscono
baci
senza vocazione,
a
te, la momentanea
prigionia
dell’agevole.
“Che
allegra!”, dicono tutti.
Ed
è che tu allora
tenti
di essere altra,
così
somigliante
a
te stessa, che ho paura
di
perderti, così.
Ti
seguo, Attendo. So
che
quando non ti osservino
gallerie
né astri,
quando
il mondo crederà
di
sapere ormai chi sei
e
dirà: “Sì, ora so”,
tu
scioglierai,
con
le braccia in alto,
dietro
ai capelli,
il
nodo, guardandomi.
Senza
rumore di cristallo
cadrà
per terra,
maschera
senza peso
ormai
inutile, il riso.
E
quando ti vedrai
nell’amore
che io ti tendo sempre
come
uno specchio ardente,
tu
riconoscerai
un
volo serio, grave,
una
sconosciuta
alta,
pallida e triste,
la
mia amata. Che mi ama
al
di là delle risa.
Non
ho bisogno di tempo…
Non
ho bisogno di tempo
per
sapere come sei:
conoscersi
è luce improvvisa.
Chi
ti potrà conoscere
là
dove taci, o nelle
parole
con cui tu taci?
Chi
ti cerca nella vita
che
stai vivendo, non sa
di
te che allusioni,
pretesti
in cui ti nascondi.
E
seguirti all’indietro
in
ciò che hai fatto, prima,
sommare
azione e sorriso,
anni
e nomi, sarà
come
perderti. Io no.
Ti
ho conosciuto nella tempesta.
Ti
ho conosciuto, improvvisa,
in
quello squarcio brutale
di
tenebra e luce,
dove
si rivela il fondo
che
sfugge al giorno e alla notte.
Ti
ho visto, mi hai visto, ed ora,
nuda
ormai dall’equivoco,
della
storia, del passato,
tu
amazzone sulla folgore,
palpitante
di recente
ed
inatteso arrivo,
sei
così anticamente mia,
da
tanto tempo ti conosco,
che
nel tuo amore chiudo gli occhi,
e
procedo senza errare,
alla
cieca, senza chiedere nulla
a
quella luce lenta e sicura
con
cui si riconoscono lettere
e
forme e si fanno conti
e
si crede di vedere
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Che
giorno incontaminato!
Che
giorno incontaminato!
La
spuma, di ora in ora,
instancabilmente,
bianca,
bianca, bianca.
Innocenti
materie,
i
corpi e le rocce
-
dallo zenit totale
mezzogiorno
assoluto –
stavano
vivendo
della luce,per la luce, nella luce.
Ancora
sconosciute
la
coscienza e l’ombra.
Si
tendeva una mano
a
cogliere una pietra,
una
nube, un fiore,
un’ala.
E
si raggiungeva tutto,
perché
era prima
delle
distanze.
Non
sospettava il tempo
di
essere il tempo.
Ci
veniva accanto
sottomesso
ed elastico.
Per
vivere lentamente,
in
fretta, gli dicevamo:
“Fermati”
o “Mettiti a correre”.
Per
vivere, vivere
soltanto,
tu gli dicevi:
“Vattene”.
E
allora ci lasciava
eterei
a galleggiare
nel
puro vivere
senza
successione,
salvati
da motivi,
da
origini, da albe.
Né
volgere la testa
né
guardare lontano
abbiamo
saputo quel giorno
tu
ed io. Non ne avevamo
bisogno.
Baciarci, sì.
Ma
con labbra così remote
dalla
loro causa,
che
inauguravano tutto,
bacio,
amore, baciandosi,
senza
dover chiedere perdono
a
nessuno, a nulla.
Che
allegria,vivere…
Che
allegria, vivere
e
sentirsi vissuto.
Arrendersi
alla
grande certezza, oscuramente,
che
un altro essere fuori di me,
molto
lontano,
mi
sta vivendo.
Che
quando gli specchi, le spie,
mercurio,
anime brevi, confermano
che
sono qui, io, immobile,
serrati
gli occhi e le labbra,
chiuso
all’amore
della
luce, del fiore e dei nomi,
la
verità transvisibile è che cammino
senza
i miei passi, con altri,
là
lontano, e lì
sto
baciando fiori, luci, parlo.
Che
esiste un altro essere
con
cui io guardo il mondo
perché
sta amandomi con i suoi occhi.
Che
esiste un’altra voce con cui io dico cose
non
sospettate dal mio gran silenzio;
ed
è che anche con la voce mi ama.
La
vita - che slancio ora! -, ignoranza
degli
atti miei, che lei compie,
in
cui lei vive, duplice, sua e mia.
E
quando mi parlerà
di
un cielo scuro, di un paesaggio bianco,
ricorderò
stelle
che non ho visto, che lei guardava,
e
neve che nevicava nel suo cielo.
Con
la strana delizia di ricordare
di
aver toccato ciò che non toccai
se
non con quelle mani
che
non raggiungo con le mie, distanti.
E
spogliato di tutto così potrà il mio corpo
riposare,
tranquillo, morto ormai.
Morire
nell’alta certezza
che
la mia vita non era solo
la
mia vita: era la nostra.
E
che un altro essere mi vive
di
là dalla non morte.
Io
di più non posso darti.
Io
di più non posso darti.
Non
sono che quello che sono.
Ah,
come vorrei essere
sabbia,
sole, in estate!
Che
tu ti distendessi
riposata
a riposare.
Che
andando via tu mi lasciassi
il
tuo corpo, impronta tenera,
tiepida,
indimenticabile.
E
che con te se ne andasse
sopra
di te, il mio bacio lento:
colore,
dalla
nuca al tallone,
bruno.
Ah
come vorrei essere
vetro,
tessuto, legno,
che
conserva il suo colore
qui,
il suo profumo qui,
ed
è nato tremila chilometri lontano!
Essere
la
materia che ti piace,
che
tocchi tutti i giorni,
che
vedi ormai senza guardare
intorno
a te, le cose
-
collana, profumi, seta antica –
di
cui se senti la mancanza
domandi:
“Ah, ma dov’è?”.
Ah,
e come vorrei essere
un’allegria
fra tutte,
una
sola,
l’allegria
della tua allegria!
Un
amore, un solo amore:
l’amore
di cui tu ti innamorassi.
Ma
non
sono quello che sono.
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La
luce ha questo di male
La
luce ha questo di male,
che
non viene da te.
La
luce viene dai soli,
dai
fiumi, dall’oliva.
Io
preferisco la tua oscurità.
L’allegria
non
è mai la stessa mano
che
me la dà. Oggi una,
un’altra
domani, un’altra ieri.
Ma
non è mai la tua.
Per
questo da te prendo sempre
la
pena, ciò che mi dai.
I
baci li portano i fili
del
telegrafo, i contatti
con
notti dense,
le
labbra dell’avvenire.
E
vengono, da dove vengono.
Io
non mi sento baciare.
E
per questo non lo voglio,
e
non voglio doverlo
non
so a chi.
Dovere
tutto a te
io
vorrei.
Come
sarebbe bello, intero, il mondo,
se
tutto, baci e luci,
e
gioia,
venissero
solo da te!
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Il
sonno è un lungo commiato a te
Il
sonno è un lungo
commiato
da te.
Che
vita insieme a te,
in
piedi, vigile del sonno!
Dormire
il mondo, il sole,
le
formiche, le ore,
tutto,
tutto addormentato,
nel
sonno che io dormo!
Tranne
tu, tu l’unica,
viva,
sopravvissuta,
nel
sogno che io sogno.
Ma
ormai ti ho salutato:
sto
per lasciarti. Accanto
il
mattino prepara
tutta
la sua precisione
di
raggi e di risa.
Fuori,
fuori, ormai,
le
immagini sognate,
che
si muovono fluttuanti
sopra
il mondo,
senza
potersi posare
perché
non trovano posto,
disperatamente!
Ti
abbraccio per l’ultima volta:
che
è come aprire gli occhi.
Ecco.
Le verticali
cominciano
a lavorare,
senza
smarrimenti, in regola.
Svolgono
i colori
le
loro mansioni di azzurro,
di
rosa, di verde,
puntuali
tutti. Il mondo
funzionerà
bene oggi:
ha
già ucciso il mio sogno.
Ti
sento fuggire, veloce,
dall’aurora,
esattissima,
verso
l’alto, cercando
la
stella che non si vede,
il
disordine celeste,
tua
sola dimora.
E
poi, quando mi sveglio,
non
ti riconosco, quasi,
quando,
al mio fianco, tendi
le
braccia verso di me
dicendo:
“Che hai sognato?”
e
ti risponderei: “Non lo so,
l’ho
scordato”,
se
il tuo corpo non fosse
già
lì, limpido, esatto,
labbra
tese ad offrirmi
il
grande errore del giorno.
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Che
incrocio nel tuo polso…
Che
incrocio nel tuo polso
del
tempo contro il tempo!
Orologio,
freddo, avvinto,
vigile,
attende
che
scorra il tuo sangue
nel
battito. Ti opprimono
ordini,
da fuori:
tic
tac, tic tac,
la
voce, lì, nella macchina.
Alla
tua vita infinita,
senza
termine, gettano
lacci
puerili i secondi.
Ma
il tuo cuore
là
in fondo afferma
-
sangue che va e viene
in
te, con il tuo amore –
il
suo essere, il suo ritmo, diverso.
No.
I giorni, il tempo,
non
ti saranno mai contati
in
una sfera bianca,
tre,
quattro, cinque, sei.
Le
tue indolenze, i tuoi impulsi,
il
grande ardore senza calcolo,
non
si possono dire in cifre.
Sentili
tu, spogliata
di
orologio, nel polso:
battito
contro numero.
Amore?
Vivere? Ascolta
il
sommesso tic tac
che
ormai sono vent’anni
vibrò
la prima volta
in
una carne vergine
del
tatto della luce,
per
offrire al mondo
un
conteggio diverso,
unico,
nuovo: tu.
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Quando tu chiudi gli occhi…
Quando
tu chiudi gli occhi
le
tue palpebre sono aria.
Mi
trascinano:
vado
con te, dentro.
Non
si vede nulla, non
si
sente nulla. Superflui
gli
occhi e le labbra,
in
questo mondo tuo.
Per
sentire te
non
valgono
i
sensi consueti,
che
si usano con gli altri.
Bisogna
attenderne di nuovi.
Si
cammina al tuo fianco
sordamente,
al buio,
inciampando
nei forse,
nelle
attese; sprofondando
verso
l’alto
con
gran peso di ali.
Quando
tu riapri gli occhi
io
torno fuori,
ormai
cieco,
inciampando
ancora,
senza
vedere, nemmeno, qui.
Senza
sapere più vivere
né
in quell’altro, nel tuo,
né
in questo
mondo
scolorito
dove
io vivevo.
Incapace,
indifeso
fra
l’uno e l’altro.
Andando,
venendo
dall’uno
all’altro
quando
tu vuoi,
quando
apri, quando chiudi
le
palpebre, gli occhi.
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No,
non ti amano, no.
No,
non ti amano, no.
Tu
sì, tu ami davvero.
L’amore
che hai in più
se
lo spartiscono esseri
e
cose che guardi,
che
tu tocchi, che mai
hanno
avuto amore prima.
Quando
dici: “Mi amano
le
tigri o le ombre”
è
solo che hai vagato
nelle
selve o nelle notti,
portando
con te
la
tua grande ansia d’amare.
Non
sei fatta per essere amata;
tu
vincerai sempre,
amando,
chi ti ama.
Amante,
amata no.
E
ciò ch’io potrò darti,
vinto,
qui, adorandoti,
tu
stessa te lo dai:
è
il tuo amore implacabile,
che
non ha con chi unirsi,
che
ritorna a se stesso
attraverso
questo corpo
mio,
permeato ormai
dal
ricordo infinito,
indimenticabile,
eterno,
di
essere valso una volta
a
che tu lo attraversassi
-
ancora sento il fuoco –
cieca,
verso il tuo destino.
Dal
ricordo che un giorno fra tutti
tu
giungesti
al
tuo amore attraverso il mio amore.
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Ciò
che tu sei…
Ciò
che tu sei
mi
distrae da ciò che tu dici.
Lanci
parole veloci
inghirlandate
di risa,
e
m’inviti ad andare
dove
mi vorranno condurre.
Non
ti do retta, non le seguo:
sto
guardando
le
labbra dove sono nate.
Guardi,
improvvisa, lontano.
Fissi
lo sguardo lì, su qualcosa,
non
so che, e scatta subito
a
carpirla la tua anima
affilata,
di saetta.
Io
non guardo dove guardi:
sto
vedendo te che guardi.
E
quando tu desideri qualcosa
non
penso a ciò che vuoi,
e
non lo invidio: non importa.
Oggi
lo vuoi, lo desideri;
domani
scorderai
per
un desiderio nuovo.
No.
Ti attendo più oltre
dei
limiti, dei termini.
In
ciò che non deve mutare
rimango
fermo ad amarti, nel puro
atto
del tuo desiderio.
E
non desidero più altro
che
vedere te che ami.
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I
cieli sono uguali.
I
cieli sono uguali.
Azzurri,
grigi, neri,
si
ripetono sopra
l’arancio
o la pietra:
guardarli
ci avvicina.
Annullano
le stelle,
tanto
sono lontane,
le
distanze del mondo.
Se
noi vogliamo unirci,
non
guardare mai avanti:
tutto
pieno di abissi,
di
date e di leghe.
Abbandonati
e galleggia
sopra
il mare o sull’erba,
immobile,
il viso al cielo.
Ti
sentirai calare
lenta,
verso l’alto,
nella
vita dell’aria.
E
ci incontreremo
oltre
le differenze
invincibili,
sabbie,
rocce,
anni, ormai soli,
nuotatori
celesti,
naufraghi
dei cieli.
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Ieri
ti ho baciato sulle lebbra.
Ieri
ti ho baciato sulle labbra.
Ti
ho baciato sulle labbra. Intense,
rosse.
Un bacio così corto
durato
più di un lampo,
di
un miracolo, più ancora.
Il
tempo
dopo
averti baciato
non
valeva più a nulla
ormai,
a nulla
era
valso prima.
Nel
bacio il suo inizio e la sua fine.
Oggi
sto baciando un bacio;
sono
solo con le mie labbra.
Le
poso
non
sulla bocca, no, non più
-
dove è fuggita? –
Le
poso
sul
bacio che ieri ti ho dato,
sulle
bocche unite
del
bacio che hanno baciato.
E
dura questo bacio
più
del silenzio, della luce.
Perché
io non bacio ora
né
una carne né una bocca,
che
scappa, che mi sfugge.
No.
Ti
sto baciando più lontano.
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Il
modo tuo d’amare…
Il
modo tuo d’amare
è
lasciare che io ti ami.
Il
sì con cui ti abbandoni
è
il silenzio. I tuoi baci
sono
offrirmi le labbra
perché
io le baci.
Mai
parole o abbracci
mi
diranno che esistevi
e
mai hai amato: mai.
Me
lo dicono fogli bianchi,
mappe,
telefoni, presagi;
tu,
no.
E
sto abbracciato a te
senza
chiederti nulla, per timore
che
non sia vero
che
tu vivi e mi ami.
E
sto abbracciato a te
senza
guardare e senza toccarti.
Non
debba mai scoprire
con
domande, con carezze,
quella
solitudine immensa
d’amarti
solo io.
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Parliamo,
da quando?
Parliamo,
da quando?
Chi
ha cominciato? Non so.
I
giorni, le mie domande;
oscure,
ampie, vaghe
le
tue risposte: le notti.
E
insieme
formano
il mondo, il tempo
per
te e per me.
Il
mio interrogare sprofonda
con
le luce nel nulla,
silenzioso,
perché
tu risponda
con
equivoche stelle;
e
poi subito rinasce
con
l’alba, stupefacente
di
novità, di ansia
di
domandare le stesse cose
che
domandava ieri,
cui
stellata la notte
appena
rispose.
Gli
anni e la vita,
che
dialogo angosciato!
Eppure,
quasi
tutto ancora da dire.
E
quando verremo separati
e
non ci sentiremo più,
io
ancora ti dirò:
“Troppo
presto!
Tanto
di cui parlare,
e
tanto
ce
ne restava ancora!”
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Che
passeggiata di notte…
Che
passeggiata di notte
con
la tua assenza al mio fianco!
Mi
sta accanto il sentire
che
non vieni con me.
Gli
specchi, l’acqua
mi
credono solo;
lo
credono gli occhi.
Sirene
dei cieli
ancora
grondanti di stelle,
tenere
ragazze languide,
che
scendono da automobili,
mi
chiamano. Non le sento.
Ho
ancora nelle orecchie
la
tua voce che diceva:
“Non
te ne andare”. E quelle
ultime
parole tue
parlano
ancora con me
senza
sosta, mi rispondono
a
ciò che ha chiesto
la
mia vita il primo giorno.
Ombre,
fantasmi, sogni,
amori
d’altro tempo,
mossi
a pietà di me,
mi
vogliono seguire,
mi
prendono per mano.
Ma
all’improvviso avvertono
che
ardente, viva, tenera,
io
stringo palpitante nella mia
la
forma di una mano.
Quella
che tu mi hai teso
dicendo:
“Non te ne andare”.
Se
ne vanno, mi lasciano
i
fantasmi, le ombre,
attoniti
vedendo
che
non rimango solo.
E
allora l’alta notte,
l’oscurità,
il freddo,
anche
loro ingannati,
mi
vengono a baciare.
Non
possono; un altro bacio
s’insinua,
sulle mie labbra.
Non
si muove di lì,
non
se ne andrà. Il bacio
che
tu mi hai dato,
guardandomi
negli occhi
mentre
mi allontanavo,
dicendo:
“Non te ne andare”.
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Ti
si sta vedendo l’altra.
Ti
si sta vedendo l’altra.
Somiglia
a te:
i
passi, la stessa fronte aggrondata,
gli
stessi tacchi alti
tutti
macchiati di stelle.
Quando
andrete per la strada
insieme,
tutt’e due,
è
difficile sapere
chi
sei o chi non sei tu!
Così
uguali ormai, che sarà
impossibile
continuare e vivere
così,
essendo tanto uguali.
E
siccome tu sei la fragile,
quella
che appena esiste, tenerissima,
sei
tu a dover morire.
Tu
lascerai che ti uccida,
che
continui a vivere lei,
la
falsa tu, menzognera,
ma
a te così somigliante
che
nessuno ricorderà
tranne
me, ciò che eri.
E
verrà un giorno
-
perché verrà, sì, verrà –
in
cui guardandomi negli occhi
tu
vedrai
che
penso a lei e che la amo:
tu
vedrai che non sei tu.
_________________________________________________________________________________
A
te si giunge solo attraverso te.
A
te si giunge solo
attraverso
di te. Ti aspetto.
Io
certo so dove sono,
la
mia città, la strada, il nome
con
cui tutti mi chiamano.
Ma
non so dove sono stato
con
te.
Lì
mi hai portato tu.
Come
potevo
imparare il cammino
se
non guardavo altro
che
te,
se
il cammino erano i tuoi passi,
e
il suo termine
l’istante
che tu ti fermasti?
Cosa
ancora poteva esserci
oltre
a te offerta, che mi guardavi?
Ma
ora,
quale
esilio, che assenza
essere
dove si è!
Aspetto,
passano i treni,
il
caso, gli sguardi.
Mi
condurrebbero forse
dove
mai sono stato.
Ma
io non voglio i cieli nuovi.
Voglio
stare dove sono già stato.
Con
te, tornare.
Quale
immensa novità
tornare
ancora,
ripetere,
mai uguale,
quello
stupore infinito!
E
finchè tu non verrai
io
rimarrò alle soglie
dei
voli, dei sogni,
delle
scie, immobile.
Perché
so che là dove sono stato
né
ali, né ruote, né vele
conducono.
Hanno
tutte smarrito il cammino.
Perché
so che là dove sono stato
si
giunge solo
con
te, attraverso di te.
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Tu
non le puoi vedere.
Tu
non le puoi vedere;
io,
sì.
Terse,
rotonde, tiepide.
Lentamente
vanno
al loro destino;
lentamente,
per indugiare
più
a lungo sulla tua carne.
Vanno
verso il nulla; non sono
che
questo, il loro scorrere.
E
una traccia, verticale,
che
si cancella subito.
Astri?
Tu
non
le puoi baciare.
Le
bacio io per te.
Hanno
un sapore; sanno
di
succhi del mondo.
Che
gusto nero e denso
di
terra, di sole, di mare!
Restano
un istante
nel
bacio, indecise
fra
la tua carne fredda
e
le mie labbra; infine
io
le prendo. E non so
se
erano davvero per me.
Perché
io non so nulla.
Sono
stelle, o segni,
sono
condanne o aurore?
Né
guardando né coi baci
ho
imparato che cos’erano.
Ciò
che vogliono resta
là
indietro, tutto ignoto.
E
così pure il loro nome.
(Se
le chiamassi lacrime
nessuno
capirebbe).
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Quando
tu mi hai scelto…
Quando
tu mi hai scelto
-
fu l’amore che scelse –
sono
emerso dal grande anonimato
di
tutti, del nulla.
Sino
allora
mai
ero stato più alto
delle
vette del mondo.
Non
ero mai sceso più sotto
delle
profondità
massime
segnalate
sulle
carte di mare.
E
la mia allegria era
triste,
come lo sono
quei
piccoli orologi,
senza
braccio su cui cingersi,
senza
carica, fermi.
Ma
quando hai detto : “tu”
-
a me, sì, a me, fra tutti –
più
in alto ormai di stelle
o
coralli sono stato.
E
la mia gioia
ha
preso a girare, avvinta
al
tuo essere, nel tuo pulsare.
Possesso
di me tu mi davi,
dandoti
a me.
Ho
vissuto, vivo. Fino a quando?
So
che tu tornerai
indietro.
E quando te ne andrai
ritornerò
a quel sordo
mondo,
indistinto,
del
grammo, della goccia,
nell’acqua,
nel peso.
Sarò
uno dei tanti
quando
non ti avrò più.
E
perderò il mio nome,
i
miei anni, i miei tratti,
tutto
perduto in me, di me.
Ritornato
all’ossario immenso
di
quelli che non sono morti
e
non hanno più nulla
da
morire nella vita.
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Non in palazzi di marmo…
Non
in palazzi di marmo
non
in mesi, no, né in cifre,
mai
calpestando il suolo:
in
lievi mondi fragili
abbiamo
vissuto insieme.
Il
tempo si misurava
a
malapena in minuti:
un
minuto era un secolo,
una
vita, un amore.
Ci
riparavano tetti,
meno
che tetti, nubi;
meno
che nubi, cieli;
meno
ancora, aria, nulla.
Attraversando
mari
fatti
di venti lacrime,
dieci
tue e dieci mie,
approdavamo
a grani
dorati
di collana,
isole
terse, deserte,
senza
fiori e senza carne;
rifugio,
così minuto,
in
vetro, di un amore
che
da solo bastava
all’amore
più grande
e
non chiedeva aiuto
né
alle navi né al tempo.
Gallerie
enormi
scavando
nei
grani di sabbia,
scoprimmo
miniere
di
fiamme o d’imprevisti.
E
tutto
appeso
a quel filo
che
sosteneva, chi?
Perciò
la nostra vita
non
sembrava vissuta:
è
scivolata, lieve,
senza
lasciarsi dietro
né
impronte né scie.
Se
tu vuoi ricordarla,
non
guardare
dove
sempre si cercano
le
orme e il ricordo.
Non
ti guardare l’anima,
l’ombra,
le labbra.
Guardati
bene il palmo
della
mano, vuoto.
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