La
Riva
Basta,
non c'è altro da chiedere,
luce,
amore, trenta aprile.
C'è
da fingere di avere
già
abbastanza, che sei sazio,
che
è anche troppo quel che resta
di
aprile
passato
il trenta d'aprile.
Lascialo
perdere,
come
se potesse darti
di
più e tu non lo volessi.
Così
te ne andrai convinto
che
non aveva mai fine
quello
che stava morendo.
Te
ne andrai
ignaro
d'essere stato
lì
sul bordo dell'estremo.
Che
tutto ciò, data, bacio
-
quando tu mi abbandonasti
a
te sembra l'eterno - ,
era
l'estremo.
Dietro,
la
fine irrimediabile, il fondo
rigido
e secco del nulla.
Quello
che tu avresti visto
arrivando
a chiedere altro
aprile
al trenta aprile.
Orologio
dipinto
Le
due e venticinque. sì. Però non qui, no.
In
che giorno sarebbero
quelle
due e venticinque,
in
che mondo saranno
le
due e venticinque, di che anno?
Com'è
bella quell'ora
sciocca,
libera, in volo
per
il limbo del tempo!
Quella
è un'ora, si vede,
in
cui nient'altro accadde oltre lei stessa:
quei
sessanta minuti
lentissimi,
sessanta lunghi baci,
innocenti
sulla
tenera guancia di una sera
di
un settembre qualunque, non so dove.
Fino
a non esser più
un'ora
di passaggio nell'ascesa
a
questo che è già adesso: un'anima di ora
che
si è scelta – perché? -,
salvata
tra le altre nella sfera
di
quell'orologio dipinto, falso, allegra
misura
dell'eterno.
Il
mia uguale
Ma
se questo che rivedo
io
non l'ho mai visto, no.
Dicono
è lo stesso, che è
quello
di ieri, di allora;
il
cielo, quella vetrina,
la
buca di tante lettere
e
la barca lungo il fiume.
Non
è vero! Se io so
che
tutto quello era morto
l'autunno
che me ne andai.
Che
ora questo
-
impossibile identità
di
un nove e di altro nove –
è
un'altra cosa, altra terra,
venute
su l'altro ieri,
nuove,
tenere, freschissime,
così
simili a quelle altre
che
tutti dicono: “Guarda,
qui
tu vivevi, era qui”.
Morti
Ho
scordato, per prima, la tua voce.
Se
tu ora qui passassi, al mio fianco,
domanderei:
“Chi è?”.
Poi
mi sono scordato il tuo passo.
E
non so più se nel vento
si
scansa un fantasma di carne,
se
sei tu.
Ti
sei sfogliata tutta lentamente
prima
che fosse inverno:
il
sorriso, lo sguardo, il colore
del
tuo vestito, il numero
delle
tue scarpe. E ancora
ti
sei sfogliata:
hai
perduto la carne, il tuo corpo.
E
m’è rimasto solo,
di
te, le sette lettere del nome.
E
tu tenti di vivere,
agonizzando
disperatamente,
in
loro, anima e corpo.
La
linea del tuo scheletro,
la
tua voce, il tuo riso, sette lettere.
Loro.
E a dirle sono
ora
il tuo corpo, ormai.
E
mi sono scordato del tuo nome.
Se
vanno separate sette lettere
non
si può riconoscerle.
Passano
i tram gli annunci: lettere
s’accendono
a colori della notte,
vanno
su buste dicendo
altri
nomi.
E
tu finirai lì
già
disciolta, disfatta, inesistente.
Sarai
tu, il tuo nome, che eri tu
in
sospensione dentro scialbi cieli
in
una gloria astratta d’alfabeto.
Risposta
alla luce
Sì,
sì, disse il bimbo, sì.
E
nessuno aveva chiesto.
Cosa
gli offri, di notte,
tu,
silenzio? Che gli davi
perché
lui dicesse urlando,
tanti
sì, e sì, e sì?
Nessuno
gli offriva nulla.
Un
mondo immenso senza domande,
e
vuote nere mani
-
profili dell'albeggiare -,
all'intorno
ammutolisce.
Tutti
quei sì – che frustate
di
volontà nel silenzio! - ,
frantumavano
la notte
i
suoi ultimi dinieghi.
Sì,
sì a tutto, a tutto sì,
anche
al nulla sì, per nulla.
Lontano,
all'orizzonte,
con
nessuno – solo lui: nessuno -
che
la sentisse, discreta
di
albore, rosa e tenera brezza,
muta
andava la domanda,
già
sul nascere del giorno.
Il
pomeriggio libero
La
settimana di aprile
si
sentì all'improvviso
un'assenza
nel petto:
giovedì,
il suo cuore.
Sì,
rubammo il giovedì.
Lei
ed io, silenziosi,
per
la mano, noi due.
Lo
rubammo con tutto.
Con
i circhi rotondi
e
con le loro tenere
acrobate,
donzelle
concettuali
dei salti.
Gli
astucci di matite,
rosse,
celesti, verdi,
e
bianche, bianche, bianche,
bianche,
per poter scrivere
alle
dieci di sera
sopra
i cieli più neri
lettere
per le aurore.
Coi
negozi deserti:
vendevano
paesaggi,
ed
eroi, teorie,
arpe.
E tutto in cambio
di
sabbia della spiaggia.
Di
sabbia così bella
che
guardandola
non
si comprava nulla
per
non lasciarla lì
color
di carne intatta,
un
po' argento, un po' rame.
Con
tutto, sì, con tutto.
Con
le scuole d'addio
alle
ombre ed ai baci.
Ai
corpi ed alle labbra
nell'uscire
sembrava
di
non essere mai soli.
Sì,
con tutto e senza fine.
Delizia
di essere così complici
in
delizie, noi due.
E
vedere sul limite del mercoledì fermarsi
attoniti
almanacchi
-
dovevano interrompersi -
mentre
tu ed io segreti,
ormai
al di là del cielo,
del
tempo, e dei numeri,
vivevamo
il giovedì.
Tu,
mia
Resta
pure dove vuoi,
e
cresci, se vuoi, ancora.
Io
ti ho già mia.
Pur
parlando giorni e notti,
nulla
dici più,
la
tua ultima parola
fu
quella che io ho udito.
Giornate
stremi e motori
tante
rotte vai cercando.
Quieta
te
ne stai, fissa nel luogo
dove
ho smesso di vederti.
Non
farai un passo in più.
Non
compirai più altri anni.
Nel
tuo corpo passeranno
al
completo gli almanacchi,
schiere
di santi del giorno
una
volta e un'altra ancora.
Tu
sei già una data sola.
E
quando ormai sarai stanca
di
viverti negli specchi,
nelle
ombre, dentro gli occhi,
di
vederti così simile
a
te, che vorrai essere te,
tornerai
qui, sulla cima
più
alta di te, quell'attimo
tanto
perfetto, eccellente,
da
non esserci di meglio,
che
così volli lasciarti,
e
me andai al tuo fianco
dicendo
al tempo: ora basta.
Vivere
era andare indietro.
Ormai
tu avevi finito
-
così sei mia – l'al di là.
Escorial
II
Non
sognare,ma contare.
La
facciata verso ovest
ha
sei
centododici
finestre.
In
primavera su nel suo cielo
vanno
verso la domenica
uno,
due, tre, quattro, cinque
nuvole
bianche.
Io
è te che amo, e te
e
te.
Tre
di voi amavo io.
E
non potrà più scapparmi
nei
vola vola del sogno
la
mattina. Traccerò la riga
per
far la somma: seicento
dodici,
più cinque, più tre,
più
dodici.
Che
felicità uguale
a
seicentotrentadue!
In
aprile, a mezzogiorno
il
conto torna.
Il
telefono
Eri
qui vicina. Solo
dieci
fiumi a separarci,
tre
gli idiomi, due frontiere:
quattro
giorni da te a me.
Tu
però ti avvicinavi
-
azzurri cerchi nell'aria -
con
una gonnella bianca,
nella
mano la cornetta,
e
sorridente nel filo.
Lungo
il filo, nella notte,
senza
vedere, venivi,
al
buio, dritta, a me.
Mi
dicevi: “Sono qui.
Qui.”
mi
raggiungevi,
nel
filo, con la tua voce.
La
tua voce, qui, era il mondo.
Che
occhi incolori, che bocca
senza
tratto, carne priva
del
suo bianco, del suo rosa:
che
tu disfatta la voce!
Incominciavi
a morire
nella
notte, in solitudine,
di
distanze e non vedersi.
Essendo
solo una voce,
da
lontano, nell'aria,
incominciavi
a morire.
E
tutto, tutto nell'aria,
su
delle terre tu, qui,
su
delle terre io, là,
così
tinte di distanze,
così
azzurre, che eran cieli.
Tutto
in aria: quel brandello
di
te, così disperato,
che
è la tua voce, nell'aria.
Nell'aria
ci sono i fili
dove
stavi per tacere.
Dove
stavi per morire.
Perché
non saresti morta,
ninfa
ora, in una splendida
erba
di mito. Ma un letto
di
acciaio teso, in un filo,
nell'aria,
tacendo
saresti morta,
tu,
che vivi nella voce.
Gli
addii
I
Addio.
Se ti dico addio,
non
ci separeremo così presto.
Ormai
non c'era più nulla da dirsi.
E
all'improvviso uno,
tu
o io,
lanciò
la salvezza,
quella
parola, addio, tra di noi.
E
adesso non possiamo più
andarcene
così.
Bisogna
restare.
Dobbiamo
dirci addio.
Sciogliere
quella matassa
del
perfetto addio.
Spiegare,
spiegarci, le viscere
vive
o morte dell'addio.
Dire
addio, addio,
di
giorno, di notte;
addii
neri, bianchi;
addii
che ridono, addii che piangono.
Ormai
sempre vicini nel distacco,
inseparabili
proprio
sul bordo – addio – del separarsi.
II
Mandare
telegrammi:
“Viaggio
impossibile. Causa addio imprevisto”.
Scrivere
lettere, dicendo:
“Non
posso più operarmi.
Devo
andare a lasciarmi”.
Appendere
sulla porta di casa
un
foglio bianco, dove non ci sia scritto:
“Chiuso,
per addio”.
III
Stiamo
appoggiati
alla ringhiera
sopra
l'acqua dell'addio.
Non
è torbida, né vuota.
Ci
son nubi, foglie, voli,
dentro,
che
vanno e vengono, passano
senza
far rumore.
Vi
galleggiano numeri, lettere,
in
superficie, sparsi:
non
contan nulla, non dicono nulla.
Elisee
cifre, lettere
vestite
di paradiso,
elevazione
e vacanza,
pronte
per un'altra vita.
Nell'acqua
tu appari – addio -
ben
meglio che sul tuo viso.
Nell'acqua
tu appari – addio -
meglio
che nella mia anima.
Non
te ne andrai più da qui
ormai.
E
vivrai così, fuggita
dal
tuo viso, dalla mia anima,
fra
te e me l'intermediaria,
nuova,
figlia
fresca dell'addio.
Vivere:
è
guardarci nell'addio.
La
senza prove
Quando
vai via, come è inutile
cercarti
dove sei andata,
seguirti!
Se
hai calpestato la neve,
sarà
come nuvole – con l'ombra -
senza
piedi e senza peso
e
segnalarti.
Quando
cammini
non
vai da nessuna parte,
né
c'è strada che poi dica:
“E'
passata di qui”.
Tu
non esci dall'esatto
centro
puro di te stessa:
non
le rotte confuse
che
vengono incontro a te.
Con
la voce e col sorriso
in
tutta delicatezza
intacchi
appena il silenzio
che
non gli duole, nemmeno
ti
sente:
continua
a credersi intero.
Se
ti cerco dentro i giorni
o
dentro gli anni
non
esco da un tempo vergine:
fu
quell'anno, fu il tal giorno,
ma
non c'è riferimento:
non
ti lasci dietro impronte.
E
potrai negarmi tutto,
negarti
a tutto potrai,
perché
elimini ogni traccia,
ogni
eco ed ogni ombra.
Così
pura e senza prove
che
quando più non vivrai
non
so in che cosa vedrò
che
vivevi,
con
tutto quel bianco immenso
tutt'intorno,
che creasti.
Luce
della notte
Sto
pensando, qui è di notte,
al
giorno che farà lì
dove
questa notte è giorno.
Nei
parasole gioiosi,
con
tutti i fiori dischiusi,
contro
il sole, che è la luna
tenue
che illumina me.
Pur
se tutto è così quieto
e
silenzioso nel buio,
qui
tutt'intorno,
vedo
la gente veloce
-
fretta, abiti chiari, risa -
che
consuma senza sosta,
con
voluttà, quella luce
di
loro, che sarà mia
non
appena uno lì dica:
“è
ormai notte”.
La
notte dove mi trovo
adesso,
dove
tu sei accanto a me
mentre
dormi e senza il sole
in
quella
notte
e luna del dormire,
che
io penso all'altro lato
del
tuo sonno, ove c'è luce
che
io non vedo.
Dove
è giorno e tu passeggiata
-
ti sorridi nel dormire -
con
quel tuo aperto sorriso,
così
gioioso e fiorito,
che
io e la notte sentiamo
che
non può essere di qui.