<3 GRAZIE A CHIUNQUE PASSA E LASCIA UN SEGNO DI SE' <3

venerdì 30 marzo 2012

Coraline - Neil Gaiman 2002


In casa di Coraline ci sono tredici porte che permettono di entrare e uscire sa stanze e corridoi, e poi ce n'è una, la quattordicesima, che da su un muro di mattoni. Oltre quel muro dovrebbe esserci un appartamento vuoto, ma... sarà vero? Perché un giorno Coraline scopre che dietro a quella porta si apre un corridoio scuro, e alla fine del corridoio c'è una casa identica alla sua, e nelle cucina della casa vive una danna uguale a sua madre. Quasi uguale, anzi, perché al posto degli occhi ha due lucidi bottoni, attaccati con ago e filo. Amorosa e attente, l'altra madre le chiede di diventare sua figlia: in cambio avrà tutto ciò che desidera, e anche di più. Ma Coraline, bambina saggia e intrepida, capisce subito di essere finita in una ragnatela fatta di nebbia e tenebra, al cui centro c'è un ragno straordinariamente pericoloso. E sa che tra incanti e spaventi, gatti parlanti e spettri di bambini, topi musicisti e vecchie attrici indomabili, toccherà a lei sconfiggere il buio e liberare i prigionieri dell'altra madre.

NOTE A MARGINE


00 Le fiabe dicono più che la verità. E non solo perché raccontano che i draghi esistono, ma perché affermano che si possono sconfiggere. G.K.Chesterton
69 Non era stato coraggioso perché non avevo paura: quella era l'unica cosa che potesse fare. Ma quando era tornato a riprendersi gli occhiali, sapendo che lì c'erano le vespe, aveva veramente paura. Quello era stato vero coraggio.
79 E' sorprendente come ciò che siamo possa dipendere dal letto in cui ci risvegliamo al mattino, ed è sorprendente come tutto ciò possa rivelarsi fragile.
137 Io non voglio tutto ciò che desidero. Nessuno lo vuole. Non veramente.

RECENSIONE

Se alcune porte sono chiuse e la loro chiave non è nella serratura ci sarà un motivo?
Coraline, una bambina – esploratrice dopo essersi trasferita in una nuova casa con i suoi genitori, in un giorno di noia conta quante porte, finestre e cose blu ci sono in quella casa. Le porte però sono quelle che colpiscono la sua attenzione: 13 si aprono e 1 invece è murata perché divide il loro appartamento da un altro appartamento momentaneamente vuoto.
Questo è il pretesto per una storia dal pathos in continuo crescendo.
Di primo impatto, nella prima parte, ricorda Alice nel paese delle meraviglie, ma andando avanti ci si accorge che non si tratta di un'Alice gotica, ma di storie totalmente differenti e lo si capisce dall'universo in cui si svolge la trama. Una sorta di universo parallelo che è L'ALTRA CASA.
Infatti qualsiasi cosa che Coraline conoscerà o sentirà nella realtà sarà poi sfruttato a dovere nell'altra casa e dall'altra madre diventando qualcosa di fantastico o di spaventoso.
All'inizio Coraline sembra un po' tonta, ma alla fine scopriamo che è una bambina molto intelligente, taciturna, per nulla piagnucolosa che da subire gli eventi diventa padrona della situazione con malizia e astuzia.
Secondo me è dall'inizio della “Caccia al Tesoro” che il romanzo raggiunge il massimo splendore.
Dopo aver letto Coraline si guarderà a porte chiuse, bottoni, biglie, gatti, topi e vicini di casa con un altro occhio.

PS. Il cartone animato secondo me è fatto proprio bene!

Un Posto pulito, illuminato bene - Ernest Hemingway 1926

 
RACCONTO

Era molto tardi e quasi tutti se n'erano andati dal caffè, tranne un vecchio che sedeva nell'ombra che le foglie dell'albero proiettavano schermando la luce delle lampade elettriche.
Durante il giorno la strada era polverosa, ma di notte la rugiada faceva depositare la polvere ed al vecchio piaceva stare seduto lì fino a tardi, perchè era sordo e di notte, quando tutto era tranquillo, riusciva a sentire che era diverso.
I due camerieri nel caffè sapevano che il vecchio era un po' ubriaco e, anche se era un buon cliente, sapevano che se si fosse ubriacato troppo se ne sarebbe andato senza pagare, così lo tenevano d'occhio.
"La settimana scorsa ha tentato il suicidio." disse uno dei camerieri.
"Perchè?"
"Era disperato."
"Per quale ragione?"
"Nessuna."
"Come lo sai che non aveva una ragione?"
"Ha un sacco di soldi."
Si sedettero ad un tavolo che stava contro il muro vicino alla porta del caffè e continuarono a guardare la terrazza dove i tavoli erano tutti vuoti tranne quello dove sedeva il vecchio, all'ombra delle foglie dell'albero che si muovevano leggermente nel vento.
Una ragazza e un soldato passarono per la strada. La luce del lampione riflesse sulla targhetta d'ottone che pendeva dal collo del soldato. La ragazza non portava niente in testa e faticava a tenere il suo passo.
"La pattuglia lo beccherà." disse uno dei camerieri.
"Che importa, se otterrà comunque quello che sta cercando?"
"Farebbe comunque meglio ad allontanarsi dalla strada adesso. La pattuglia lo prenderà. È passata appena cinque minuti fa."
il vecchio seduto nell'ombra batteva sul vassoio con gli occhiali. Il cameriere più giovane andò da lui.
"Che cosa vuole?"
Il vecchio lo guardò. "Un altro brandy" disse.
"Si ubriacherà," disse il cameriere. Il vecchio lo guardò. Il cameriere andò via.
"Resterà qui tutta la notte," disse al collega "Ed io ho già sonno. Non vado mai a dormire prima delle tre. Avrebbe dovuto ammazzarsi la settimana scorsa."
Il cameriere prese la bottiglia di brandy ed un altro bicchiere dal bancone dentro al caffè e marciò verso il tavolo del vecchio. Appoggiò il cabaret e riempì il bicchiere di brandy fino all'orlo. "Ti saresti dovuto ammazzare la settimana scorsa" disse all'uomo sordo.
Il vecchio fece un gesto con le dita. "Un po' di più," disse. Il cameriere continuò a versare così il brandy traboccò e scivolò giù dentro al primo vassoio della pila. "Grazie" disse il vecchio.
Il cameriere riportò la bottiglia nel caffè. Si sedette nuovamente al tavolo con il suo collega.
"Adesso è ubriaco," disse.
"Si ubriaca tutte le notti".
"Perchè voleva ammazzarsi?"
"Cosa ne so io?"
"Come ha fatto?"
"Si è impiccato con una corda"
"Chi lo ha tirato giù?"
"Sua nipote"
"Perchè lo ha fatto?"
"Per salvargli l'anima."
"Quanti soldi ha?"
"Un sacco"
"Deve avere almeno ottant'anni"
"Si credo proprio che abbia ottant'anni"
"Vorrei che andasse a casa. Non riesco mai ad andare a letto prima delle tre del mattino. Che razza di ora è per andare a letto?"
"Lui sta sveglio perchè gli piace"
"Lui è solo. Io no. Ho una moglie che mi aspetta nel letto."
"Anche lui aveva una moglie, una volta."
"Una moglie adesso non gli servirebbe a niente."
"Chi lo sa? Forse starebbe meglio se avesse una moglie."
"Sua nipote si occupa di lui. Hai detto che lo ha tirato giù lei."
"Lo so."
"Non mi piacerebbe essere così vecchio. I vecchi sono cose sporche."
"Non sempre. Questo vecchio è pulito. Beve senza rovesciare una goccia. Persino adesso che è ubriaco. Guardalo."
"Non ho voglia di guardarlo. Vorrei solo che andasse a casa. Non ha nessun rispetto per chi deve lavorare."
Il vecchio guardò la piazza attraverso le lenti degli occhiali, poi guardò i camerieri.
"Un altro brandy," disse, indicando il suo bicchiere. Il cameriere che aveva fretta andò da lui.
"Finito" disse, parlando con quell'omissione di sintassi che gli stupidi usano quando parlano con la gente ubriaca o con gli stranieri. "Basta stanotte. Adesso chiuso."
"Un altro" disse il vecchio.
"No. Finito." Il cameriere iniziò a spazzare un lato del tavolo con un tovagliolo scuotendo la testa.
Il vecchio si alzò, contò lentamente i vassoi, tolse un portamonete di pelle dalla tasca e pagò quel che aveva bevuto lasciando mezza peseta di mancia.
Il cameriere lo guardò mentre si allontanava, un uomo molto vecchio che camminava con passo incerto ma con dignità.
“Perchè non gli hai permesso di restare a berne un altro?” chiese il cameriere che non aveva fretta. Stavano già chiudendo la serranda.
“Non sono ancora le due e trenta.”
“Voglio andare a casa, a letto.”
“Che differenza fa un'ora?”
“Fa più differenza per me che per lui”
“Un'ora è sempre un'ora”
Adesso parli come se fossi vecchio anche tu. Poteva comprarsi una bottiglia e andare a bersela a casa.”
“Non è la stessa cosa”
“No, non lo è.” acconsentì il cameriere che aveva una moglie. Non voleva essere ingiusto. Aveva solo fretta.
“E tu? Non hai paura ad andare a casa prima del solito?”
“Stai cercando di insultarmi?”
“No, hombre, sto solo scherzando”
“No” disse il cameriere che aveva fretta, alzandosi dopo aver agganciato la serratura di metallo. “Mi fido, mi fido molto.”
“Hai gioventù, fiducia e un lavoro” disse il cameriere più vecchio. “Hai tutto”:
“Ed a te cosa manca?”
“Tutto tranne un lavoro.”
“Hai le stesse cose che ho io”
“No. Non mi sono mai fidato di nessuno e non sono giovane.”
“Avanti. Smettiamola con queste sciocchezze e chiudiamo.”
“Io sono uno di quelli a cui piace restare al caffè fino a tardi.” disse il cameriere più vecchio.
“Con tutti quelli che non vogliono andare a letto.”
“Io voglio andare a casa e infilarmi a letto.”
“Siamo di due tipi differenti” disse il cameriere più vecchio. “Non è solo una questione di età o di fiducia, anche se queste sono comunque cose molto belle. Ogni notte sono riluttante a chiudere perché potrebbe arrivare qualcuno che ha bisogno del caffè.”
“Hombre, ci sono bodegas aperte tutta la notte.”
“Tu non capisci. Questo è un caffè pulito e piacevole. È illuminato bene. La luce è molto buona e poi, adesso, c'è l'ombra delle foglie.”
“Buonanotte” disse il cameriere più giovane.
“Buonanotte” disse l'altro. Spense la luce continuando la conversazione tra sé e sé. Era la luce, ovviamente, ma era comunque necessario che il posto fosse pulito e piacevole. Certamente non ci deve essere musica. Né si può stare con dignità in piedi di fronte a un bancone, anche se è l'unica cosa che puoi trovare dopo una certa ora. Di che cosa aveva paura? Non era paura né timore, era un nulla che conosceva troppo bene. Tutto era nulla, anche gli uomini erano nulla. Era solo quello e la luce era l'unica cosa di cui aveva bisogno, assieme ad un poco di pulizia e di ordine.
Alcuni ci vivevano e neanche se ne accorgevano, ma lui lo sapeva che tutto era nada y pues nada y nada y pues nada. Nada nostro che sei nel nada, nada sia il nome de il tuo regno, nada la tua volontà in nada come in nada. Dacci oggi il nostro nada quotidiano e rimetti a noi i nostri nada come noi li rimettiamo ai nostri nada e libberaci dal nada; pues nada.
Ave o nulla pieno di nulla, che il nulla sia con te.
Sorrise e si fermò davanti ad un bancone con una luccicante macchina del caffè a pressione.
“Che cosa vuole?” chiese il barista.
“Nada”
“Otro loco mas*.” disse il barista e si voltò.
“Una tazzina” disse il cameriere.
Il barista gliela versò.
“La luce è brillante e piacevole, ma il bancone non è lucidato.” disse il cameriere.
Il barista lo guardò ma non rispose. Era troppo tardi per fare conversazione.
“Vuole un'altra copita?” chiese il barista.
“No, grazie.” disse il cameriere ed uscì. Non gli piacevano i bar e le bodegas. Un caffè pulito e ben illuminato era una cosa molto diversa.
Ora, senza più pensare, sarebbe andato a casa, nella sua stanza. Si sarebbe coricato sul letto e finalmente, con la luce del giorno, si sarebbe addormentato. Dopo tutto si disse, è probabilmente solo insonnia. Deve essere un problema abbastanza comune.

*Un altro matto.


RECENSIONE

Quando Ernest Hemingway scrisse A Clean, Well-Lighted Place, nel 1926, aveva 28 anni. Il racconto fu successivamente incluso nella raccolta Winner take nothing del 1933.
E' opinione comune – e certo non infondata – che Hemingway dia il meglio di sé nei racconti. O, forse, i racconti consento un accesso più immediato, più intuitivo al complesso mondo dell'autore statunitense.
Quel che è certo è che “Un posto pulito, illuminato bene” ci presenta Ernest Hemingway al suo meglio: sintetico, teso, essenziale e secco.
Dialoghi che schioccano come un colpo di frusta, immagini che si succedono con una tecnica decisamente impressionistica (il soldato, la ragazza, l'ombra delle foglie appena mosse dal vento e, soprattutto, il vecchio, sordo, silenzioso, ubriaco, solo – assolutamente solo).
L'azione si disegna attraverso i dialoghi di due camerieri: pennellate rapide, nitide, precise. Tre protagonisti che, ovviamente, rappresentano altrettante fasi della vita: le illusioni giovanili, il disincanto dell'età matura, la muta disperazione della vecchiaia. Il caffè si trasforma in una perfetta rappresentazione scenica – quasi teatrale – un microcosmo completo.
Il quadro, potenzialmente quasi banale, si traduce invece nella più sorprendente e blasfema preghiera della letteratura americana.
Il buio fa paura. Non per quel che contiene, ma per quel che non contiene. È come se l'oscurità fosse una porta, uno squarcio attraverso il velo dell'illusione che circonda ogni cosa. Una porta aperta sull'abisso e oltre la soglia... nulla, nada. Nothing.
La fortuna è non accorgersene...molti non se ne accorgono mai. Niente di male sia chiaro, come dice il cameriere più anziano: “Non è solo una questione di età o di fiducia, siamo di due tipi differenti.”
Ma poi, se tutto è davvero nada, allora niente è davvero importante. Prima o poi arriverà anche il mattino, per non pensare più. Nel frattempo bastano, un altro brandy, un altro bar e, naturalmente, la luce elettrica.
Hemingway scrisse questo racconto quando aveva meno di trent'anni. Trent'anni dopo si sarebbe suicidato sparandosi con un fucile da caccia. Forse non ne poteva più del nada che è in ogni luogo, o forse, soltanto, non se la sentiva più di rimanere solo, in un caffè, ad attendere il mattino.

<<Ma forse, si disse, è solo insonnia. Deve essere un problema abbastanza comune....>>

mercoledì 28 marzo 2012

Greenpeace





Morte malinconica del Bambino Ostrica - Tim Burton 1997


In questo libro Tim Burton scrive ballate e poesie e le illustra con tratto lieve. Con la stregata malinconia che pervade i suoi film, Burton ricrea la magia degli antichi libri illustrati per ragazzi portandola in uno stralunato mondo di robot, mostri e dolenti assurdità, e donando a questi figli del nostro tempo una irrevocabile di orrore, comicità e insieme malinconica, che apparenta le sue figure di esseri sconfitti, o almeno colpiti da un'assoluta solitudine, alle invenzioni della grande arte e letteratura di tutti i tempi.
I bambini protagonisti di questo libro sono poco più che Cose Animate, fragilissimi ma irriducibili nella loro voglia di vita, sempre sul punto di essere distrutti da qualche crudeltà di Adulto. Per il lettore italiano, Nico Orengo ha reinventato da poeta i versi di Tim Burton, facendoli propri, e il risultato è un libro doppiamente godibile. Un libro per adulti dal cuore di bambino e anche per bambini veri.

RECENSIONE

Che dire del mondo di Tim Burton? È il mondo di Tim Burton...!
Tre stelle alle sue poesie nere per bambini dalle passioni gotiche, tre stelle ai suoi personaggi e ai suoi bei disegni grotteschi.
Il problema sta nella traduzione di Nico Orengo, che cerca in tutti i modi di ricreare le sonorità e le rime che l'autore propone nella versione inglese (che si trova alla fine del libro). Non sono dispiaciuta dalla traduzione di Orengo, solo che a volte scade nell'italianizzazione di tutto il testo, con una traduzione creativa, un po' troppo creativa. Così, per esempio, "in the freeway" diventa "sull'Aurelia", e Sam diventa Carlo. Ma perché?! Se riuscite leggetelo in lingua originale sarebbe la soluzione ottimale.
Non lo ritengo però opportuno per i bambini.
Questo è un link dove poter leggere una VERA opinione letteraria su questo libro. =)


martedì 27 marzo 2012

IL RITORNO DI LORENZO


è di nuovo qui la festa: ballate con me!

Esce il nuovo attesissimo album di Jovanotti, quello della maturità. Ed è una vera sorpresa: suoni dance e parole che arrivano dritte al cuore.

“Ho bisogno di un disco che mi piaccia tantissimo, di un disco che sia pronto a tutto Perché mi piace, che io sia pronto a difenderlo, che io abbia voglia di far ascoltare. Sono pronto ad un grande successo con un disco che mi piace e sono pronto anche a un grande rifiuto. Ma non sono pronto a un successo e nemmeno a un insuccesso che non mi convince fino in fondo.” Con queste parole Lorenzo Jovanotti racconta la genesi di “ORA”, il suo disco più rivoluzionario. Era il giugno dell'anno scorso. La dichiarazione è stata affidata alla meno rivoluzionaria di tutte le forme di comunicazione: un libro che raccoglie l'epistolario con il filosofo Franco Bolelli. S'intitola “VIVA TUTTO!” e tra le sue pagine non c'è solo la storia delle canzoni di ORA. C'è la storia di Lorenzo. Strano, il caso Jovanotti. Agli esordi, ai tempi di “Gimme five”, era troppo facile parlare male di lui. Così facile che in molti hanno smesso di farlo. Poi, negli anni '90, quando Lorenzo ha iniziato a fare sul serio, è diventato troppo facile parlare bene. Così facile che a un certo punto molti hanno smesso di farlo. Ora che ha 44 anni, si può parlare di Lorenzo dimenticando le etichette, pensando soltanto a quel che è: un artista vero, irrequieto, confusionario, bulimico e per questo modernissimo. Esplosivo e commovente anche quando è pieno di dubbi.

La crisi dei “maledetti 40 anni”

Come in quest'ultimo anno, quello della gestazione del nuovo album. Perché la famosa crisi dei 40, “dove la tendenza è proiettare tutto nei genitori che invecchiano e nei figli che crescono senza trovarsi” ha colpito un po' anche lui. “Io dove sono? Esisto in quanto padre di una bimba che sta diventando adolescente con tutto quello che comporta? In quanto figlio di una mamma che perde colpi e non vuole più sapere, pare, di trovare un motivo per stare al mondo?”.
I mesi della lavorazione del disco sono stati intensi. Teresa, la figlia di Lorenzo, ora è una ragazzina di 12 anni e sta diventando autonoma, come scrive lui. La mamma di Lorenzo non c'è più. Se l'è portata via un'emoraggia cerebrale, dopo mesi di ospedale. Lorenzo ha passato tanto tempo con lei tenendole la mano, leggendole giornali e salmi della Bibbia, facendosi travolgere dai ricordi. Scrivendo per lei le più belle pagine dell'epistolario. E dedicandole tutto il disco.
Ma nel frattempo ha anche girato gli Stati Uniti con il resto della famiglia, ha suonato a Central Park, a New York, di fronte a 8000 americani dapprima incuriositi e poi entusiasti. È andato in giro per l'Appennino con la sua moto fuoristrada insieme con Valentino Rossi. Ha partecipato a un laboratorio di musica d'Opera per 80 bambini. Si è perso con la mountain bike nei boschi della sua Toscana, registrando sul suo iPhone qualche appunto musicale “quando diventava un mantra sincronizzato alla pedalata”. Sorrisi, ricordi, lacrime, ansia, voglia di libertà. Esistono condizioni migliori per creare delle canzoni? “I dischi fanno venire i nodi al pettine, io di fronte a un disco devo spogliarmi e guardarmi dentro e vengono fuori tutti i blocchi che ho accumulato nel periodo precedente”.

Tutto e il contrario di tutto

Il lavoro sul disco è iniziato così, da un'intuizione coraggiosa: “In questo disco non devono esserci canzoni che ho già scritto in vecchi dischi, nel senso di percorsi già battuti”. Così Lorenzo si è chiuso nello studio di registrazione della sua casa di Cortona, vicino ad Arezzo, con gli amici di sempre (il fido bassista Saturnino in testa) lavorando come un matto, frugando tra i suoi tormenti, registrando ore e ore di musica fino a notte fonda, senza sapere quanto lontano avrebbe portato quella strada. Divertendosi a mescolare “tutti i colori possibili in quanto sound e anche a rime. Batterie elettroniche anni 80, percussioni varie, chitarre di plastica giapponesi e vecchie Fender con l'aria vissuta, microfoni da diecimila euro e da venti euro, analogico e digitale in convivenza amorosa e in gara tra loro a chi offre il meglio”. Quel che ne è venuto fuori è una strepitosa sintesi di tutto e del suo contrario. Una sintesi di Jovanotti, insomma. Un disco scintillante, ballabilissimo, perfetto per essere sparato in un club il venerdì sera o diffuso dagli altoparlanti di un centro commerciale un martedì qualunque. Il segreto di Lorenzo è anche quello di rivolgersi a nuovi collaboratori: “Credo che sia importante cercare di lavorare con i più bravi e che più si acquisisce esperienza, più bisogna andare a cercare gente nuova... è proprio quando uno è bravo che ha bisogno di una mano, che ha bisogno di cercare il confronto, di mettersi in pericolo. È una cosa che richiede sforzo Perché a nessuno, specialmente a una persona di successo, piace trovarsi di fronte ai propri limiti e preferisce crearsi una corte, ma guai. Guai!”.

Meno male che c'è Francesca.

La prima persona con cui Lorenzo si è messo in discussione è stata, come al solito, la moglie Francesca, spesso ammessa ad ascoltare le registrazioni della notte precedente prima di tutti gli altri. “La sua sensibilità è pazzesca sui pezzi, mi dice cose precisissime”. Forse è proprio l'amore, il fattore meno digitale al mondo, che ha fatto da detonatore a un album così esplosivo.

Un buon brano per rimorchiare.

Un giorno chiave per la realizzazione del disco è il 5 luglio, quello in cui nasce il singolo “Tutto l'amore che ho”, ormai da settimane il più programmato dalle radio. Anche in questo casa la descrizione di Lorenzo è illuminante: “Mi immagino il pezzo che parte in radio mentre uno è nel traffico in macchina che va al lavoro e il panorama dal finestrino si elettrifica e la giornata comincia bene. Mi immagino il pezzo con davanti una pista da ballo. È un buon pezzo anche per chi vuole rimorchiare in un club”.
Il resto è storia. Quel che c'è nel disco (15 canzoni nella versione standard, 25 in quella deluxe) lo si racconta successivamente. Per quanto si può: l'album è un uragano di suon, di idee, di colpi al cuore da incassare con il sorriso, muovendo il bacino. Lorenzo ha ragione: “La musica è per forza un'esplosione di un mondo sconosciuto, una cosa erotica, emozionale, fatta di riscatto, di goduria, di voglia di successo, di seduzione, di voglia di incidere sulla realtà, e bisogna essere prudenti ma sapere bene che ci si gioca tutto. Per questo io non credo nei talent show, dal punto di vista musicale. Un debuttante deve passare attraverso dei fallimenti, degli errori, degli aggiustamenti di rotta e questo non può avvenire in pubblico, Perché un fallimento di fronte a milioni di persone può trasformarti in una persona infelice per tutta la vita”. E invece il nuovo disco di Lorenzo è tutto il contrario di questo: una porta aperta sul mondo. Un invito alla felicità.

IN ORA OGNI BRANO E' UN MONDO A PARTE. C'E' QUELLO OSSESSIVO CHE INVITA A DANZARE TUTTA LA NOTTE, IL LENTO STRAPPACUORE, IL BRANO NAIF ALLA PAOLO CONTE. JOVANOTTI HA FATTO DI TESTA SUA, SENZA VOLER PIACERE A TUTTI: PER QUESTO PIACERA' A TUTTI...

MEGAMIX: il brano di apertura è tecno, con una base elettronica imponente e dalle percussioni detonanti. Come il testo, percorso da una domanda ossessiva: “E' questa la vita che sognavo da bambino?”.

TUTTO L'AMORE CHE HO: il successo del singolo parla da sé. Un brano scintillante come un pezzo dance anni 70, sinfonico e sintetico come una canzone dei Daft Punk. Se Bach fosse nato negli anni 90 e avesse frequentato i club, forse avrebbe scritto canzoni come questa...

LE TASCHE PIENE DI SASSI: primo cambio di registro. Una ballata solo piano e archi in cui è impossibile non leggere l'addio di Lorenzo a sua madre: “Mi hai lasciato da solo davanti a scuola / mi vien da piangere / arriva subito / mi riconosci ho le scarpe piene di passi / la faccia piena di schiaffi / il cuore pieno di battiti / e gli occhi pieni di te”. Eppure è un trionfo di serenità.

AMAMI: il ritmo si alza di nuovo in uno dei brani più eleganti del disco, sintesi perfetta tra dance e pop. Sensuale, ipnotico, morbido: impossibile restare fermi.

ORA: il ritmo si abbassa di nuovo in un rap che ricorda l'era d'oro del “trip hop”, la musica elettronica nata a Bristol alla fine degli anni 90. Ma quando arriva il ritornello si torna in Italia, dalle parti di Battiato. E la melodia s'incolla addosso.

IL PIU' GRANDE SPETTACOLO DOPO IL BIG BANG: esplosiva, saltellante, divertentissima, prototipo di perfetta canzone pop. Cantata dal Lorenzo di oggi, colpisce ancora di più. Sembra un gioco, ma non lo è: forse è la miglior canzone d'amore deglil ultimi anni. “Il più grande spettacolo dopo il big bang siamo noi / io e te / io e te”.

L'ELEMENTO UMANO: “noi siamo l'elemento umano nella macchina / e siamo liberi sotto le nuvole”. Ballata sospesa, intensa e piena di speranza, con un finale alla Morricone. Bella anche la sambeggiante versione acustica nell'edizione deluxe.

LA BELLA VITA (LA BELLE VIE): cambia di nuovo tutto: armonie africane, ritmi calypso, strumenti etnici e suoni elettronici da vecchio videogioco Atari. Un “alleggerimento” in attesa della tempesta che sta arrivando...

BATTITI DI ALI DI FARFALLA: incursione nel campo dell'hip hop. Un rap classico alla Jovanotti, se non fosse per l'uso estroso dell'elettronica, tra campioni di vecchie suonerie (Nokia?), esplosioni di bassi acidi e potentissimi, chitarre funk. Partecipa Michael Franti, che già aveva affiancato Jovanotti in “Safari”, l'ultimo album uscito nel 2008.

IO DANZO: si torna nella dance per ballare su un tema di attualità: “Ci ascoltano al telefono / ci guardano i satelliti / ci tracciano nel traffico / controllano gli acquisti / ci rubano le password / ci frugano nel bancomat...eppure non mi sono mai sentito così libero / Perché io danzo / sulla frontiera”.

LA NOTTE DEI DESIDERI: altro possibile singolo: pop sopraffino, elettronica leggera, ritmi caraibici. Mette di buon umore.

QUANDO SARO' VECCHIO: questa poi: irrompe il ritmo ska che accompagna un brano tra Paolo Conte e Nicola Piovani. Divertente e sarcastico: per Jovanotti è un salto siderale. Dimostra che ormai può permettersi tutto. C'è il fischio di Alessandro Alessandroni, artista di tante colonne sonore di spaghetti western.

UN'ILLUSIONE: altra sorpresa: un tappeto elettronico e gli archi sostengono una lenta ballata d'amore alla Tecno. E lo spessore dell'interpretazione stupisce.

LA PORTA E' APERTA: non si può abbassare la guardia: qui si viene ricatapultati nella dance estrema, ai confini dell'industrial. Il testo però è troppo bello per abbandonarsi al ritmo: “La tristezza è un ricatto / è il delitto perfetto / che fa vittime più della peste / e non desta sospetto”.

ROSSO D'EMOZIONE: ancora elettronica, ma sempre diversa: ricorda certi esperimenti elettrofunk alla Hancock degli anni 80. un mantra dal quale è difficile liberarsi.

Favola e Segno - Pedro Salinas 1931


La Riva

Basta, non c'è altro da chiedere,
luce, amore, trenta aprile.
C'è da fingere di avere
già abbastanza, che sei sazio,
che è anche troppo quel che resta
di aprile
passato il trenta d'aprile.
Lascialo perdere,
come se potesse darti
di più e tu non lo volessi.
Così te ne andrai convinto
che non aveva mai fine
quello che stava morendo.
Te ne andrai
ignaro d'essere stato
lì sul bordo dell'estremo.
Che tutto ciò, data, bacio
- quando tu mi abbandonasti
a te sembra l'eterno - ,
era l'estremo.
Dietro,
la fine irrimediabile, il fondo
rigido e secco del nulla.
Quello che tu avresti visto
arrivando a chiedere altro
aprile al trenta aprile.


Orologio dipinto

Le due e venticinque. sì. Però non qui, no.
In che giorno sarebbero
quelle due e venticinque,
in che mondo saranno
le due e venticinque, di che anno?
Com'è bella quell'ora
sciocca, libera, in volo
per il limbo del tempo!
Quella è un'ora, si vede,
in cui nient'altro accadde oltre lei stessa:
quei sessanta minuti
lentissimi, sessanta lunghi baci,
innocenti
sulla tenera guancia di una sera
di un settembre qualunque, non so dove.
Fino a non esser più
un'ora di passaggio nell'ascesa
a questo che è già adesso: un'anima di ora
che si è scelta – perché? -,
salvata tra le altre nella sfera
di quell'orologio dipinto, falso, allegra
misura dell'eterno.


Il mia uguale

Ma se questo che rivedo
io non l'ho mai visto, no.
Dicono è lo stesso, che è
quello di ieri, di allora;
il cielo, quella vetrina,
la buca di tante lettere
e la barca lungo il fiume.
Non è vero! Se io so
che tutto quello era morto
l'autunno che me ne andai.
Che ora questo
- impossibile identità
di un nove e di altro nove –
è un'altra cosa, altra terra,
venute su l'altro ieri,
nuove, tenere, freschissime,
così simili a quelle altre
che tutti dicono: “Guarda,
qui tu vivevi, era qui”.


Morti

Ho scordato, per prima, la tua voce.
Se tu ora qui passassi, al mio fianco,
domanderei: “Chi è?”.
Poi mi sono scordato il tuo passo.
E non so più se nel vento
si scansa un fantasma di carne,
se sei tu.
Ti sei sfogliata tutta lentamente
prima che fosse inverno:
il sorriso, lo sguardo, il colore
del tuo vestito, il numero
delle tue scarpe. E ancora
ti sei sfogliata:
hai perduto la carne, il tuo corpo.
E m’è rimasto solo,
di te, le sette lettere del nome.
E tu tenti di vivere,
agonizzando disperatamente,
in loro, anima e corpo.
La linea del tuo scheletro,
la tua voce, il tuo riso, sette lettere.
Loro. E a dirle sono
ora il tuo corpo, ormai.
E mi sono scordato del tuo nome.
Se vanno separate sette lettere
non si può riconoscerle.
Passano i tram gli annunci: lettere
s’accendono a colori della notte,
vanno su buste dicendo
altri nomi.
E tu finirai lì
già disciolta, disfatta, inesistente.
Sarai tu, il tuo nome, che eri tu
in sospensione dentro scialbi cieli
in una gloria astratta d’alfabeto.


Risposta alla luce

Sì, sì, disse il bimbo, sì.
E nessuno aveva chiesto.
Cosa gli offri, di notte,
tu, silenzio? Che gli davi
perché lui dicesse urlando,
tanti sì, e sì, e sì?
Nessuno gli offriva nulla.
Un mondo immenso senza domande,
e vuote nere mani
- profili dell'albeggiare -,
all'intorno ammutolisce.
Tutti quei sì – che frustate
di volontà nel silenzio! - ,
frantumavano la notte
i suoi ultimi dinieghi.
Sì, sì a tutto, a tutto sì,
anche al nulla sì, per nulla.

Lontano, all'orizzonte,
con nessuno – solo lui: nessuno -
che la sentisse, discreta
di albore, rosa e tenera brezza,
muta andava la domanda,
già sul nascere del giorno.

Il pomeriggio libero

La settimana di aprile
si sentì all'improvviso
un'assenza nel petto:
giovedì, il suo cuore.
Sì, rubammo il giovedì.
Lei ed io, silenziosi,
per la mano, noi due.
Lo rubammo con tutto.
Con i circhi rotondi
e con le loro tenere
acrobate, donzelle
concettuali dei salti.
Gli astucci di matite,
rosse, celesti, verdi,
e bianche, bianche, bianche,
bianche, per poter scrivere
alle dieci di sera
sopra i cieli più neri
lettere per le aurore.
Coi negozi deserti:
vendevano paesaggi,
ed eroi, teorie,
arpe. E tutto in cambio
di sabbia della spiaggia.
Di sabbia così bella
che guardandola
non si comprava nulla
per non lasciarla lì
color di carne intatta,
un po' argento, un po' rame.
Con tutto, sì, con tutto.
Con le scuole d'addio
alle ombre ed ai baci.
Ai corpi ed alle labbra
nell'uscire sembrava
di non essere mai soli.
Sì, con tutto e senza fine.
Delizia di essere così complici
in delizie, noi due.
E vedere sul limite del mercoledì fermarsi
attoniti almanacchi
- dovevano interrompersi -
mentre tu ed io segreti,
ormai al di là del cielo,
del tempo, e dei numeri,
vivevamo il giovedì.

Tu, mia

Resta pure dove vuoi,
e cresci, se vuoi, ancora.
Io ti ho già mia.
Pur parlando giorni e notti,
nulla dici più,
la tua ultima parola
fu quella che io ho udito.
Giornate stremi e motori
tante rotte vai cercando.
Quieta
te ne stai, fissa nel luogo
dove ho smesso di vederti.
Non farai un passo in più.
Non compirai più altri anni.
Nel tuo corpo passeranno
al completo gli almanacchi,
schiere di santi del giorno
una volta e un'altra ancora.
Tu sei già una data sola.
E quando ormai sarai stanca
di viverti negli specchi,
nelle ombre, dentro gli occhi,
di vederti così simile
a te, che vorrai essere te,
tornerai qui, sulla cima
più alta di te, quell'attimo
tanto perfetto, eccellente,
da non esserci di meglio,
che così volli lasciarti,
e me andai al tuo fianco
dicendo al tempo: ora basta.
Vivere era andare indietro.
Ormai tu avevi finito
- così sei mia – l'al di là.

Escorial II

Non sognare,ma contare.
La facciata verso ovest
ha sei
centododici finestre.
In primavera su nel suo cielo
vanno verso la domenica
uno, due, tre, quattro, cinque
nuvole bianche.
Io è te che amo, e te
e te.
Tre di voi amavo io.
E non potrà più scapparmi
nei vola vola del sogno
la mattina. Traccerò la riga
per far la somma: seicento
dodici, più cinque, più tre,
più dodici.
Che felicità uguale
a seicentotrentadue!
In aprile, a mezzogiorno
il conto torna.

Il telefono

Eri qui vicina. Solo
dieci fiumi a separarci,
tre gli idiomi, due frontiere:
quattro giorni da te a me.
Tu però ti avvicinavi
- azzurri cerchi nell'aria -
con una gonnella bianca,
nella mano la cornetta,
e sorridente nel filo.
Lungo il filo, nella notte,
senza vedere, venivi,
al buio, dritta, a me.
Mi dicevi: “Sono qui.
Qui.”
mi raggiungevi,
nel filo, con la tua voce.
La tua voce, qui, era il mondo.
Che occhi incolori, che bocca
senza tratto, carne priva
del suo bianco, del suo rosa:
che tu disfatta la voce!
Incominciavi a morire
nella notte, in solitudine,
di distanze e non vedersi.
Essendo solo una voce,
da lontano, nell'aria,
incominciavi a morire.
E tutto, tutto nell'aria,
su delle terre tu, qui,
su delle terre io, là,
così tinte di distanze,
così azzurre, che eran cieli.
Tutto in aria: quel brandello
di te, così disperato,
che è la tua voce, nell'aria.
Nell'aria ci sono i fili
dove stavi per tacere.
Dove stavi per morire.
Perché non saresti morta,
ninfa ora, in una splendida
erba di mito. Ma un letto
di acciaio teso, in un filo,
nell'aria,
tacendo saresti morta,
tu, che vivi nella voce.

Gli addii

I

Addio. Se ti dico addio,
non ci separeremo così presto.
Ormai non c'era più nulla da dirsi.
E all'improvviso uno,
tu o io,
lanciò la salvezza,
quella parola, addio, tra di noi.
E adesso non possiamo più
andarcene così.
Bisogna restare.
Dobbiamo dirci addio.
Sciogliere quella matassa
del perfetto addio.
Spiegare, spiegarci, le viscere
vive o morte dell'addio.
Dire addio, addio,
di giorno, di notte;
addii neri, bianchi;
addii che ridono, addii che piangono.
Ormai sempre vicini nel distacco,
inseparabili
proprio sul bordo – addio – del separarsi.

II

Mandare telegrammi:
“Viaggio impossibile. Causa addio imprevisto”.
Scrivere lettere, dicendo:
“Non posso più operarmi.
Devo andare a lasciarmi”.
Appendere sulla porta di casa
un foglio bianco, dove non ci sia scritto:
“Chiuso, per addio”.

III

Stiamo
appoggiati alla ringhiera
sopra l'acqua dell'addio.
Non è torbida, né vuota.
Ci son nubi, foglie, voli,
dentro,
che vanno e vengono, passano
senza far rumore.
Vi galleggiano numeri, lettere,
in superficie, sparsi:
non contan nulla, non dicono nulla.
Elisee cifre, lettere
vestite di paradiso,
elevazione e vacanza,
pronte per un'altra vita.
Nell'acqua tu appari – addio -
ben meglio che sul tuo viso.
Nell'acqua tu appari – addio -
meglio che nella mia anima.
Non te ne andrai più da qui
ormai.
E vivrai così, fuggita
dal tuo viso, dalla mia anima,
fra te e me l'intermediaria,
nuova,
figlia fresca dell'addio.
Vivere:
è guardarci nell'addio.

La senza prove

Quando vai via, come è inutile
cercarti dove sei andata,
seguirti!
Se hai calpestato la neve,
sarà come nuvole – con l'ombra -
senza piedi e senza peso
e segnalarti.
Quando cammini
non vai da nessuna parte,
né c'è strada che poi dica:
“E' passata di qui”.
Tu non esci dall'esatto
centro puro di te stessa:
non le rotte confuse
che vengono incontro a te.
Con la voce e col sorriso
in tutta delicatezza
intacchi appena il silenzio
che non gli duole, nemmeno
ti sente:
continua a credersi intero.
Se ti cerco dentro i giorni
o dentro gli anni
non esco da un tempo vergine:
fu quell'anno, fu il tal giorno,
ma non c'è riferimento:
non ti lasci dietro impronte.
E potrai negarmi tutto,
negarti a tutto potrai,
perché elimini ogni traccia,
ogni eco ed ogni ombra.
Così pura e senza prove
che quando più non vivrai
non so in che cosa vedrò
che vivevi,
con tutto quel bianco immenso
tutt'intorno, che creasti.

Luce della notte

Sto pensando, qui è di notte,
al giorno che farà lì
dove questa notte è giorno.
Nei parasole gioiosi,
con tutti i fiori dischiusi,
contro il sole, che è la luna
tenue che illumina me.
Pur se tutto è così quieto
e silenzioso nel buio,
qui tutt'intorno,
vedo la gente veloce
- fretta, abiti chiari, risa -
che consuma senza sosta,
con voluttà, quella luce
di loro, che sarà mia
non appena uno lì dica:
“è ormai notte”.
La notte dove mi trovo
adesso,
dove tu sei accanto a me
mentre dormi e senza il sole
in quella
notte e luna del dormire,
che io penso all'altro lato
del tuo sonno, ove c'è luce
che io non vedo.
Dove è giorno e tu passeggiata
- ti sorridi nel dormire -
con quel tuo aperto sorriso,
così gioioso e fiorito,
che io e la notte sentiamo
che non può essere di qui.