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martedì 27 marzo 2012

Favola e Segno - Pedro Salinas 1931


La Riva

Basta, non c'è altro da chiedere,
luce, amore, trenta aprile.
C'è da fingere di avere
già abbastanza, che sei sazio,
che è anche troppo quel che resta
di aprile
passato il trenta d'aprile.
Lascialo perdere,
come se potesse darti
di più e tu non lo volessi.
Così te ne andrai convinto
che non aveva mai fine
quello che stava morendo.
Te ne andrai
ignaro d'essere stato
lì sul bordo dell'estremo.
Che tutto ciò, data, bacio
- quando tu mi abbandonasti
a te sembra l'eterno - ,
era l'estremo.
Dietro,
la fine irrimediabile, il fondo
rigido e secco del nulla.
Quello che tu avresti visto
arrivando a chiedere altro
aprile al trenta aprile.


Orologio dipinto

Le due e venticinque. sì. Però non qui, no.
In che giorno sarebbero
quelle due e venticinque,
in che mondo saranno
le due e venticinque, di che anno?
Com'è bella quell'ora
sciocca, libera, in volo
per il limbo del tempo!
Quella è un'ora, si vede,
in cui nient'altro accadde oltre lei stessa:
quei sessanta minuti
lentissimi, sessanta lunghi baci,
innocenti
sulla tenera guancia di una sera
di un settembre qualunque, non so dove.
Fino a non esser più
un'ora di passaggio nell'ascesa
a questo che è già adesso: un'anima di ora
che si è scelta – perché? -,
salvata tra le altre nella sfera
di quell'orologio dipinto, falso, allegra
misura dell'eterno.


Il mia uguale

Ma se questo che rivedo
io non l'ho mai visto, no.
Dicono è lo stesso, che è
quello di ieri, di allora;
il cielo, quella vetrina,
la buca di tante lettere
e la barca lungo il fiume.
Non è vero! Se io so
che tutto quello era morto
l'autunno che me ne andai.
Che ora questo
- impossibile identità
di un nove e di altro nove –
è un'altra cosa, altra terra,
venute su l'altro ieri,
nuove, tenere, freschissime,
così simili a quelle altre
che tutti dicono: “Guarda,
qui tu vivevi, era qui”.


Morti

Ho scordato, per prima, la tua voce.
Se tu ora qui passassi, al mio fianco,
domanderei: “Chi è?”.
Poi mi sono scordato il tuo passo.
E non so più se nel vento
si scansa un fantasma di carne,
se sei tu.
Ti sei sfogliata tutta lentamente
prima che fosse inverno:
il sorriso, lo sguardo, il colore
del tuo vestito, il numero
delle tue scarpe. E ancora
ti sei sfogliata:
hai perduto la carne, il tuo corpo.
E m’è rimasto solo,
di te, le sette lettere del nome.
E tu tenti di vivere,
agonizzando disperatamente,
in loro, anima e corpo.
La linea del tuo scheletro,
la tua voce, il tuo riso, sette lettere.
Loro. E a dirle sono
ora il tuo corpo, ormai.
E mi sono scordato del tuo nome.
Se vanno separate sette lettere
non si può riconoscerle.
Passano i tram gli annunci: lettere
s’accendono a colori della notte,
vanno su buste dicendo
altri nomi.
E tu finirai lì
già disciolta, disfatta, inesistente.
Sarai tu, il tuo nome, che eri tu
in sospensione dentro scialbi cieli
in una gloria astratta d’alfabeto.


Risposta alla luce

Sì, sì, disse il bimbo, sì.
E nessuno aveva chiesto.
Cosa gli offri, di notte,
tu, silenzio? Che gli davi
perché lui dicesse urlando,
tanti sì, e sì, e sì?
Nessuno gli offriva nulla.
Un mondo immenso senza domande,
e vuote nere mani
- profili dell'albeggiare -,
all'intorno ammutolisce.
Tutti quei sì – che frustate
di volontà nel silenzio! - ,
frantumavano la notte
i suoi ultimi dinieghi.
Sì, sì a tutto, a tutto sì,
anche al nulla sì, per nulla.

Lontano, all'orizzonte,
con nessuno – solo lui: nessuno -
che la sentisse, discreta
di albore, rosa e tenera brezza,
muta andava la domanda,
già sul nascere del giorno.

Il pomeriggio libero

La settimana di aprile
si sentì all'improvviso
un'assenza nel petto:
giovedì, il suo cuore.
Sì, rubammo il giovedì.
Lei ed io, silenziosi,
per la mano, noi due.
Lo rubammo con tutto.
Con i circhi rotondi
e con le loro tenere
acrobate, donzelle
concettuali dei salti.
Gli astucci di matite,
rosse, celesti, verdi,
e bianche, bianche, bianche,
bianche, per poter scrivere
alle dieci di sera
sopra i cieli più neri
lettere per le aurore.
Coi negozi deserti:
vendevano paesaggi,
ed eroi, teorie,
arpe. E tutto in cambio
di sabbia della spiaggia.
Di sabbia così bella
che guardandola
non si comprava nulla
per non lasciarla lì
color di carne intatta,
un po' argento, un po' rame.
Con tutto, sì, con tutto.
Con le scuole d'addio
alle ombre ed ai baci.
Ai corpi ed alle labbra
nell'uscire sembrava
di non essere mai soli.
Sì, con tutto e senza fine.
Delizia di essere così complici
in delizie, noi due.
E vedere sul limite del mercoledì fermarsi
attoniti almanacchi
- dovevano interrompersi -
mentre tu ed io segreti,
ormai al di là del cielo,
del tempo, e dei numeri,
vivevamo il giovedì.

Tu, mia

Resta pure dove vuoi,
e cresci, se vuoi, ancora.
Io ti ho già mia.
Pur parlando giorni e notti,
nulla dici più,
la tua ultima parola
fu quella che io ho udito.
Giornate stremi e motori
tante rotte vai cercando.
Quieta
te ne stai, fissa nel luogo
dove ho smesso di vederti.
Non farai un passo in più.
Non compirai più altri anni.
Nel tuo corpo passeranno
al completo gli almanacchi,
schiere di santi del giorno
una volta e un'altra ancora.
Tu sei già una data sola.
E quando ormai sarai stanca
di viverti negli specchi,
nelle ombre, dentro gli occhi,
di vederti così simile
a te, che vorrai essere te,
tornerai qui, sulla cima
più alta di te, quell'attimo
tanto perfetto, eccellente,
da non esserci di meglio,
che così volli lasciarti,
e me andai al tuo fianco
dicendo al tempo: ora basta.
Vivere era andare indietro.
Ormai tu avevi finito
- così sei mia – l'al di là.

Escorial II

Non sognare,ma contare.
La facciata verso ovest
ha sei
centododici finestre.
In primavera su nel suo cielo
vanno verso la domenica
uno, due, tre, quattro, cinque
nuvole bianche.
Io è te che amo, e te
e te.
Tre di voi amavo io.
E non potrà più scapparmi
nei vola vola del sogno
la mattina. Traccerò la riga
per far la somma: seicento
dodici, più cinque, più tre,
più dodici.
Che felicità uguale
a seicentotrentadue!
In aprile, a mezzogiorno
il conto torna.

Il telefono

Eri qui vicina. Solo
dieci fiumi a separarci,
tre gli idiomi, due frontiere:
quattro giorni da te a me.
Tu però ti avvicinavi
- azzurri cerchi nell'aria -
con una gonnella bianca,
nella mano la cornetta,
e sorridente nel filo.
Lungo il filo, nella notte,
senza vedere, venivi,
al buio, dritta, a me.
Mi dicevi: “Sono qui.
Qui.”
mi raggiungevi,
nel filo, con la tua voce.
La tua voce, qui, era il mondo.
Che occhi incolori, che bocca
senza tratto, carne priva
del suo bianco, del suo rosa:
che tu disfatta la voce!
Incominciavi a morire
nella notte, in solitudine,
di distanze e non vedersi.
Essendo solo una voce,
da lontano, nell'aria,
incominciavi a morire.
E tutto, tutto nell'aria,
su delle terre tu, qui,
su delle terre io, là,
così tinte di distanze,
così azzurre, che eran cieli.
Tutto in aria: quel brandello
di te, così disperato,
che è la tua voce, nell'aria.
Nell'aria ci sono i fili
dove stavi per tacere.
Dove stavi per morire.
Perché non saresti morta,
ninfa ora, in una splendida
erba di mito. Ma un letto
di acciaio teso, in un filo,
nell'aria,
tacendo saresti morta,
tu, che vivi nella voce.

Gli addii

I

Addio. Se ti dico addio,
non ci separeremo così presto.
Ormai non c'era più nulla da dirsi.
E all'improvviso uno,
tu o io,
lanciò la salvezza,
quella parola, addio, tra di noi.
E adesso non possiamo più
andarcene così.
Bisogna restare.
Dobbiamo dirci addio.
Sciogliere quella matassa
del perfetto addio.
Spiegare, spiegarci, le viscere
vive o morte dell'addio.
Dire addio, addio,
di giorno, di notte;
addii neri, bianchi;
addii che ridono, addii che piangono.
Ormai sempre vicini nel distacco,
inseparabili
proprio sul bordo – addio – del separarsi.

II

Mandare telegrammi:
“Viaggio impossibile. Causa addio imprevisto”.
Scrivere lettere, dicendo:
“Non posso più operarmi.
Devo andare a lasciarmi”.
Appendere sulla porta di casa
un foglio bianco, dove non ci sia scritto:
“Chiuso, per addio”.

III

Stiamo
appoggiati alla ringhiera
sopra l'acqua dell'addio.
Non è torbida, né vuota.
Ci son nubi, foglie, voli,
dentro,
che vanno e vengono, passano
senza far rumore.
Vi galleggiano numeri, lettere,
in superficie, sparsi:
non contan nulla, non dicono nulla.
Elisee cifre, lettere
vestite di paradiso,
elevazione e vacanza,
pronte per un'altra vita.
Nell'acqua tu appari – addio -
ben meglio che sul tuo viso.
Nell'acqua tu appari – addio -
meglio che nella mia anima.
Non te ne andrai più da qui
ormai.
E vivrai così, fuggita
dal tuo viso, dalla mia anima,
fra te e me l'intermediaria,
nuova,
figlia fresca dell'addio.
Vivere:
è guardarci nell'addio.

La senza prove

Quando vai via, come è inutile
cercarti dove sei andata,
seguirti!
Se hai calpestato la neve,
sarà come nuvole – con l'ombra -
senza piedi e senza peso
e segnalarti.
Quando cammini
non vai da nessuna parte,
né c'è strada che poi dica:
“E' passata di qui”.
Tu non esci dall'esatto
centro puro di te stessa:
non le rotte confuse
che vengono incontro a te.
Con la voce e col sorriso
in tutta delicatezza
intacchi appena il silenzio
che non gli duole, nemmeno
ti sente:
continua a credersi intero.
Se ti cerco dentro i giorni
o dentro gli anni
non esco da un tempo vergine:
fu quell'anno, fu il tal giorno,
ma non c'è riferimento:
non ti lasci dietro impronte.
E potrai negarmi tutto,
negarti a tutto potrai,
perché elimini ogni traccia,
ogni eco ed ogni ombra.
Così pura e senza prove
che quando più non vivrai
non so in che cosa vedrò
che vivevi,
con tutto quel bianco immenso
tutt'intorno, che creasti.

Luce della notte

Sto pensando, qui è di notte,
al giorno che farà lì
dove questa notte è giorno.
Nei parasole gioiosi,
con tutti i fiori dischiusi,
contro il sole, che è la luna
tenue che illumina me.
Pur se tutto è così quieto
e silenzioso nel buio,
qui tutt'intorno,
vedo la gente veloce
- fretta, abiti chiari, risa -
che consuma senza sosta,
con voluttà, quella luce
di loro, che sarà mia
non appena uno lì dica:
“è ormai notte”.
La notte dove mi trovo
adesso,
dove tu sei accanto a me
mentre dormi e senza il sole
in quella
notte e luna del dormire,
che io penso all'altro lato
del tuo sonno, ove c'è luce
che io non vedo.
Dove è giorno e tu passeggiata
- ti sorridi nel dormire -
con quel tuo aperto sorriso,
così gioioso e fiorito,
che io e la notte sentiamo
che non può essere di qui.

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